venerdì 25 dicembre 2009

Ritorno alla sinagoga


La storia dei settanta contadini pugliesi che negli anni Venti diventarono ebrei e nel 1948 emigrarono in Israele

Sannicandro, oggi San Nicandro, è una cittadina pugliese, un paesotto del Gargano che poco ha di urbano a tutt’oggi, figuriamoci alla fine degli anni Venti del secolo scorso, quando vi iniziò un’avventura straordinaria, quella che portò una settantina dei suoi abitanti a diventare ebrei, ad attendere molti anni di potersi convertire formalmente all’ebraismo e infine a trasferirsi in Israele, subito dopo il 1948. Erano, quelli successivi alla Prima guerra mondiale, anni percorsi da fermenti politici e religiosi di ogni tipo anche nel sud, profondamente modificato dalle migrazioni di tanti suoi figli in America. Diffusi ed attivi nel proselitismo erano i protestanti, in particolare i movimenti pentecostali. Il protagonista di questa vicenda, unica nella lunga storia dei rapporti tra mondo cristiano e mondo ebraico, è un bracciante analfabeta, Donato Manduzio, tornato invalido dalle trincee della Grande guerra. In ospedale ha imparato a leggere e a scrivere e, costretto alla quasi immobilità, passa il tempo immerso nelle letture. Letture disparate, spesso casuali. Quando un vicino gli regala una Bibbia avuta da un predicatore pentecostale – una Bibbia in italiano, nella traduzione di Lutero – Manduzio vi si immerge totalmente, scoprendo che nel testo biblico non si faceva parola né della Trinità né del Papa né di Gesù e che vi si narrava invece di un popolo perduto in paesi lontani a cui Dio apparve sulla montagna consegnando la “vera fede”. Intorno a lui cominciano a radunarsi amici, parenti, vicini. Il gruppo discute le parole lette da Manduzio, con ingenuità e curiosità, senza preconcetti.

E’ la prima volta che hanno l’occasione di affrontare direttamente la parola di Dio. A poco a poco, da semplice lettore, Manduzio diviene un interprete, pervaso di messianesimo e di tensioni mistiche, mentre i suoi seguaci imparano a leggere e a scrivere.
Di fronte a questa grave violazione religiosa – la lettura del testo sacro in italiano – intervenne il prete del luogo. Non solo però non riuscì a spuntarla, ma perse anche il suo sacrestano, che si unì al gruppo di Manduzio. Si fecero vivi anche i luterani, convinti di far proseliti e di strappare fedeli ai papisti. Ma, se la lettura della Bibbia aveva convinto Manduzio e i suoi seguaci che il cattolicesimo non aveva granché a che vedere con quanto ritrovavano nel testo, non li aveva però spinti nella direzione di una conversione al protestantesimo. Erano giunti alla conclusione che la vera fede fosse quella ebraica, come era esposta nel testo biblico, e si proclamavano ebrei. Erano convinti, d’altronde, che gli ebrei non esistessero più, che fossero stati soppiantati dai cristiani. Insomma pensavano fermamente di essere gli unici ebrei sulla faccia della terra. Cominciarono a osservare il sabato, a tenersi lontani dai riti cattolici, ad adottare quelli ebraici che imparavano faticosamente a conoscere studiando il Levitico.

Erano ovviamente molto distanti dalla ritualità ebraica vera e propria, non conoscevano il Talmud, e il loro unico punto di riferimento era il testo biblico. Ma quando vennero casualmente a sapere che di ebrei sulla faccia della terra, e perfino in Italia, ce ne erano ancora molti, e che se volevano essere davvero ebrei dovevano mettersi in contatto con loro, decisero di scrivere a Roma e di informare il rabbino capo dell’esistenza della loro comunità, chiedendo di essere convertiti. Per due volte le loro lettere restarono senza risposta, poi, infine, ricevettero risposta. David Prato, il rabbino capo della Comunità di Roma, li esortava ad attendere tre anni meditando sul passo che volevano compiere, prima di affrontare il problema della conversione. Nel frattempo, Roma inviava loro testi biblici, scialli e libri di preghiera. Era il 1934.

Lentamente, il paese si abituava alla presenza di quel gruppo di “ebrei” che mangiavano secondo le regole ebraiche, celebravano le feste ebraiche, leggevano la Bibbia, pregavano e creavano canti religiosi. Le tensioni semmai furono interne, tanto è vero che si formarono due comunità in conflitto, quella rimasta intorno a Manduzio ed una fondata dal ciabattino Mattoni. Ma i tempi stavano diventando sempre più grami. I protestanti erano sottoposti a molte restrizioni, e nel 1937 anche i seguaci di Manduzio furono ammoniti e multati pesantemente dalla polizia. Non si trattava di antisemitismo, ma del sospetto che le loro riunioni nascondessero attività antifasciste. In quell’occasione, intervenne l’Unione delle comunità israelitiche a chiarire la situazione. Il presidente Raffaele Cantoni si recò a Sannicandro a visitare questi strani ebrei, portando loro in dono libri.

Nel 1938, passati i tre anni, Manduzio ricevette infine dal rabbinato una lettera che li esortava, per il loro bene, ad avere ancora pazienza: il momento non era molto favorevole agli ebrei, meglio aspettare che passasse la bufera delle leggi razziali. Sul momento, convertirsi all’ebraismo non era cosa consigliabile. Una decisione che a Sannicandro venne interpretata come un rifiuto, e molto sofferta. Nel 1940, con l’entrata in guerra, il Sud si riempì di campi di internamento per ebrei italiani e soprattutto stranieri, Mai, dopo il 1540, data dell’espulsione definitiva degli ebrei dal meridione d’Italia, queste zone avevano visto tanti ebrei. A soli cinquanta chilometri da Sannicandro, a Manfredonia, fu creato un campo di internamento, dove furono rinchiusi molti ebrei tedeschi, ma a Sannicandro la vita continuava a scorrere senza troppe tensioni. Soltanto poco prima dell’8 settembre, i tedeschi, che si avviavano ormai ad abbandonare la zona incalzati dall’avanzata alleata, si fermarono in paese a chiedere dove fossero gli “ebrei”, ma il paese intero li protesse.

Venne la liberazione, con gli angloamericani che circolavano ovunque distribuendo cioccolata e sigarette. Fu in questa circostanza che gli ebrei di Sannicandro scoprirono, increduli ed estasiati, la stella di Davide sulle camionette. Era la famosa brigata ebraica, formata da ebrei della Palestina arruolati nell’esercito inglese. Sarà un ufficiale di quella Brigata, Phinn Lapide, a stringere più forti rapporti con loro, a leggere le carte di Manduzio, il suo diario, la documentazione che raccontava quei tredici anni, dal 1930 in poi, in cui si era formata la piccola comunità. Nel 1953 scriverà sulla loro vicenda un libro, “The prophet of San Nicandro”, tradotto in italiano nel 1958 con il titolo “Mosè in Puglia” (Longanesi). Fra quanti, incuriositi dalla sua storia, andarono a far visita a Manduzio, ci fu anche, nel marzo 1944, un ufficiale dell’esercito inglese. Era un ebreo italiano che veniva dalla Palestina ed era impegnato in una missione volta a soccorrere gli ebrei ancora sotto l’occupazione nazista. Si chiamava Enzo Sereni, e viene oggi considerato uno dei padri fondatori dello stato d’Israele.

Nel maggio dello stesso anno, compirà la sua ultima missione, paracadutandosi in Toscana, dove sarà arrestato dai nazisti, per morire poi a Dachau. Finita la guerra, gli ebrei di Sannicandro otterranno infine di convertirsi, non senza ulteriori difficoltà. La conversione, una conversione di massa senza precedenti di settanta persone fra uomini, donne e bambini, avvenne nell’agosto 1946. Donato Manduzio, fortemente contrario a lasciare la sua terra per il nuovo stato degli ebrei, si spegnerà nel marzo del 1948. Tra il 1948 e il 1950, i suoi seguaci faranno tutti l’aliyah in Israele, stabilendosi vicino a Tzfat, e a Sannicandro rimangono solo cinque ebrei. Attualmente, sono una cinquantina e mantengono in vita una piccola comunità.
Ma qual era il contesto culturale in cui la conversione di Sannicandro è nata? Quali le memorie della presenza ebraica nel sud d’talia, dopo secoli dall’espulsione? Nell’Alto Medioevo, gli ebrei italiani erano stanziati soprattutto al sud, sulle coste.

La Puglia era particolarmente importante: qui in quei secoli, nelle fitte comunità ebraiche che la popolavano, era stato introdotto il Talmud babilonese e si era, sembra, costituita la stessa forma comunitaria. Questo mondo era finito già all’inizio del secondo millennio, e gli ebrei rimasti nel meridione erano stati convertiti a forza o esiliati sotto la dominazione angioina. Nel Trecento le sinagoghe pugliesi erano state trasformate in chiese. Ma non era questa, la memoria dietro quella conversione. Più recente era il ricordo delle conversioni e dell’esilio che accompagnarono l’inizio della dominazione spagnola, e soprattutto del fenomeno del marranesimo: il criptogiudaismo di convertiti a forza, o di discendenti di convertiti, che continuano a mantenere nascostamente credenze, riti ed usanze degli ebrei, duramente perseguitati dall’Inquisizione, mandati sul rogo ove scoperti. Il sud d’Italia è pieno di reminescenze famigliari (nomi, usanze, particolarità) a cui far risalire una lontana origine ebraica perduta nelle generazioni.

Manduzio non guarda a questa memoria. Legge la Bibbia, non sa di Talmud, Mishnah, cultura rabbinica. Il suo ebraismo, quello dei suoi seguaci, viene direttamente dal testo biblico. Ma su qualcosa doveva pur innestarsi. Pensiamo innanzitutto, alla vasta diffusione del protestantesimo, con cui lo stesso Manduzio, prima di accostarsi all’ebraismo, era venuto in contatto, alla pratica di una lettura diretta del testo biblico di matrice protestante, anche se diverse sono le conclusioni che Manduzio ne trasse. Inoltre, ricordiamo che ci sono stati nel sud d’Italia, prima di questo, casi di cattolici, non discendenti da ebrei convertiti, che si scoprivano ebrei leggendo i testi. “Vecchi cristiani”, per dirla usando il linguaggio del tempo, che volevano diventare ebrei non per trovare radici più o meno lontane, ma per convinzione. Qualche anno fa uno storico, Giovanni Romeo, ne ha tratti alcuni dall’oblio.

Finivano assai male, naturalmente: sul rogo, in prigione, suicidi, considerati pazzi. Figure affascinanti, di persone qualunque o di mistici e intellettuali, come Giulio Cesare Gambardella, un giovane napoletano tormentato da una deformità fisica e considerato “scemo di cervello”, torturato e condannato al carcere perpetuo nel 1579, come Giovanni Leonardo Gatto, anch’egli napoletano, dottore in legge, dichiarato insano di mente, e soprattutto come il pugliese Ottavio d’Arimini, filosofo e teologo, che sarà giustiziato a Roma dopo un processo in cui si era dimostrato “del tutto miscredente dela fede christiana” e credente invece in “un solo Iddio in cielo a costume di hebrei”. Un altro caso interessante è quello di Scipione Vallati, anch’egli di origine pugliese, un giovane colto che a Napoli nel 1605 decide di rifiutare il cattolicesimo e di farsi ebreo, arrivando a tentare di circoncidersi. Denunciato in ospedale dal suo confessore, morirà prima che il processo inquisitoriale sia compiuto. Nelle sue dichiarazioni, oltre all’esaltazione del monoteismo, un acceso spirito messianico. Questi casi, per quanto sporadici, rivelano come l’ebraismo possa aver giocato un ruolo importante come punto di riferimento di un dissenso religioso diffuso soprattutto al sud nei primi decenni della dominazione spagnola. Gli stessi della fuga di Giordano Bruno e della congiura di Tommaso Campanella, in un momento di riflusso delle spinte riformatrici di matrice protestante.

C’è infine un’altra matrice che merita di essere analizzata nella ricerca dell’origine della conversione di Sannicandro: la cultura contadina. Una volontà forte di apprendere, un desiderio di mettere la cultura alta al vaglio della propria critica, testardaggine e se vogliamo anche molta confusione, e l’idea che apprendere ti metta in grado di decidere. C’è un senso forte delle proprie autonome capacità di comprendere in un analfabeta che impara a leggere e si fa maestro e quasi profeta. Come Campanella, anche Manduzio si era macerato gli occhi sull’olio delle lampade e aveva anteposto la cultura a tutto il resto. Un filo rosso unisce i vari aspetti di questo mondo bizzarro della cultura eterodossa del Sud d’Italia, in tutte le forme che assume, nel Dio che nega come in quello che accetta.

di Anna Foa

giovedì 12 novembre 2009

La festa di San Martino a Venezia

Ieri è stata l'Estate di San Martino, un giorno molto atteso dai bambini di Venezia; festeggiato fin dalle prime ore del giorno, alla loro maniera gradevolmente chiassosa. La festa ci viene documentata da Fausto, tramite il suo blog molto ben curato, Alloggi Barbaria blogspot.
Dietro sua preventiva autorizzazione la ricopio integralmente, comprese le foto, le quali, per ragioni dovute alle mie scarse capacità tecniche, troveranno una collocazione diversa rispetto alla fonte originaria. Mi riferisco volentieri a questa festa fanciullesca veneziana, perchè non mi risulta sia altrettanto festeggiata qui da noi "sul continente". Ma i blogger più attempati forse ricorderanno se mai durante la loro fancillezza avvenivano feste del genere nei loro rispettivi paesi o città. In particolare mi aspetterei racconti da parte di Ambra e di Marcello, i quali, come suppongo, dovrebbero averne in abbondanza. Dal canto mio, e anche se purtroppo è riferito alla settimana santa, poichè di San Martino non ricordo di nulla, ho lasciato ampia testimonianza nel commentario di Fausto, di quanto avveniva di festosamente rumoroso dalle mie parti, al tempo in cui ero fanciullo.
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Post di Fausto
La Festa di San Martino a Venezia si è tenuta regolarmente come ogni anno, l'11 novembre. La Festa di San Martino è molto amata dai bambini che, secondo una secolare tradizione, girano per i vari negozi con mestoli e coperchi di pentole "minacciando" di cantare la filastrocca di San Martino (e battendo i loro attrezzi con vigore) se non gli viene dato qualche moneta o caramella. I titolari dei negozi cedono fin troppo facilmente a simili "ricatti", anche perchè, se i bambini non ricevono dei dolci, insistono con la canzoncina fino a perdere il fiato. A dire il vero la Festa di San Martino anche a Venezia ha risentito del momento economico non esaltante, quindi i bambini hanno ricevuto molti più dolci che monete. Come si è detto la Festa di San Martino viene celebrata solo dai bambini. Si è assistito quindi fin dal mattino al via vai di scolaresche (accompagnate dalle loro maestre) per le strade di Venezia, alla ricerca di normali negozi o pasticcerie disposte a pagare il dazio alla festa. Nel pomeriggio e fino a sera invece i gruppi di bambini erano più ridotti ma sicuramente più rumorosi, accompagnati dai genitori molto felici di rinnovare tramite i loro figli le usanze di questa antica festa. La Festa di San Martino è stata celebrata anche in Campo dei Frari con un suggestivo ritrovo di adulti e bambini illuminato da lampade colorate. Ancora di sera le pasticcerie ed i bar della città esponevano nelle loro vetrine i tipici dolci di San Martino, alcuni dei quali grandi come metà vetrina (vedi foto sotto). Alla fine della giornata i bambini sono tornati a casa esausti ma felici. Nelle loro tasche molti dolci e caramelle e qualche soldino, come vuole la tradizione.








domenica 1 novembre 2009

L’investitura di cavaliere di S.Stefano

Dal blog

http://narrare-dimammi.blogspot.com/2009/10/la-procedura-per-linvestitura-di.html

La procedura per l’investitura di cavaliere di S.Stefano.
Dal libro “ I cavalieri di Arezzo Cortona e Sansepolcro membri del Sacro Militare Ordine di S. Stefano Papa e Martire “ (edito da ETS) del prof. Bruno Casini che ha esaminato la documentazione dell’archivio di stato di Pisa e dall’archivio dell’ordine di S.Stefano.


“Giovanni Battista Lambardi di Arezzo, discese da parte del padre, da Fabiano figlio di Bernardino Lambardi e di M. Camilla di Girolamo Bacci e, da parte di madre, da M. Beatrice, figlia di Guasparri di Alessandro Tondinelli e di M. Marietta di Marco Fierabracci.
Il detto Giovanni Battista comparve davanti al vicario generale del vescovo di Arezzo e, per fare chiarezza sulla nobiltà dei suoi antenati produsse i capitoli, gli attestati e gli stemmi a colori, e designò come testimoni da esaminarsi le seguenti persone: Giovanni Battista Riccomanni, Donato di Gregorio Chiaromanni (ndr. seguono altri 7 testimoni)
Il 9 febbraio 1597,si svolse il processo per le provanze di nobiltà davanti al detto vicario generale e al cavaliere Angelo Mannini di Arezzo; redasse l’istrumento Valentino di Andrea Subbiano,notaio della Religione di S. Stefano.
I Dodici cavalieri del consiglio, nell’informazione inviata al granduca il 25 febbraio 1597,esposero che il Consiglio aveva veduto e considerato quanto il supplicante aveva prodotto e aveva trovato che egli,con il deposto dei testimoni e con fede pubblica aveva provato che discendeva, per padre madre e ava paterna dai Lambardi,dai Tondinelli e dai Bacci di Arezzo,tutte casate nobili e abili ai sommi onori fino al gonfalierato, per ava materna, dai Fierabracci, casata già ammessa al priorato e allora estinta;che egli supplicante aveva l’età di 20 anni.
Con un rescritto granducale del 16 dicembre del 1598 fu disposto: “Diaseli l’habito con questo che navighi”
Il 21 dicembre 1598, il detto Giovanni Battista prese l’abito di cavaliere milite dell’ Ordine di S.Stefano , in Pisa, all’età di 20 anni, per mano del cavaliere Silvio Piccolimini, gran contestabile. Le sue esequie furono celebrate il 19 agosto 1650.”

lunedì 26 ottobre 2009

Marco d'Aviano 2°parte

Marco d'Aviano, santo ed eroe dimenticato
Il suo Barbarossa è nelle sale, e Renzo Martinelli è già da tempo impegnato alla preparazione del suo prossimo film: Marco d'Aviano . Dovrebbe essere un film ancor più spettacolare del Barbarossa; infatti, se in questo ha dovuto ricostruire la Milano del XII secolo, nel Marco d'Aviano dovrà ricostruire la Vienna di fine '600. A rendere colossale il film, poi, ci dovrebbe essere la scena principale, la quale dovrebbe riguardare l'assedio di Vienna, iniziato il 12 luglio 1683 con l'arrivo delle prime avanguardie turche nei sobborghi di Vienna. La consistenza dell'esercito turco, al completo, è stata variamente valutata in 200.000 - 300.000 uomini, ma è più verosimile fossero all'incirca 140.000. Ammettendo per buono questo dato, sarebbero comunque stati il doppio rispetto alla coalizione formata da forze austriache, sveve, bavaresi, sassone, francone assommanti a 70.000 uomini, di cui 30.000, ben addestrati, provenivano dalla sola Polonia, comandati da re Giovanni Sobieski. I preparativi per la battaglia furono intrapresi la sera dell'11 settembre; l'indomani, domenica 12 settembre 1683, ebbe luogo quella che viene ricordata come la battaglia di Vienna ; una battaglia dal cui esito sarebbe dipeso il futuro corso della storia europea. In caso di vittoria ottomana, infatti, l'Europa sarebbe stata islamizzata di forza. E secondo il terribile progetto del gran visir Kara Mustafà, progetto che in Europa si credeva o si pensava di conoscere, questi aveva in mente di "espugnare Vienna e Praga, frantumare le forze di Luigi XIV sul Reno, e marciare su Roma per fare di San Pietro le scuderie del sultano".
Con un impiego di forze di quella proporzione, Vienna - assediata e parzialmente svuotata da suoi abitanti, datisi a precipitosa fuga nell'imminenza del pericolo - secondo quel progetto turco, sarebbe dovuta capitolare in pochi giorni. Invece resistette ad oltranza, dando così modo alla coalizione amica di organizzare gli aiuti. I viennesi sentivano che la posta in gioco era troppo grande: Vienna era considerata l'ultimo baluardo contro l'avanzata irrefrenabile dell'islam, che era culminata nel 1453 con la conquista di Costantinopoli (ora Istanbul) da parte dei turchi ottomani; impresa che aveva posto fine all'Impero Romano d'Oriente, o Impero Bizantino.
Il regista dovrà anche saper rappresentare il terrore patito dal popolo viennese durante i tremendi due mesi dell'assedio: "i bastioni non erano fortificati e muniti, i cannoni scarseggiavano, mentre dall'alto delle mura gli assediati potevano vedere le tende mussulmane che si stendevano a perdita d'occhio nei dintorni". Il terrore dei viennesi veniva anche alimentato dai racconti di quanto avvenuto 112 anni prima, nel 1571, nell'isola di Cipro, presa ai veneziani dall'assalto dei turchi. Era successo un fatto terrificante, di bestialità e crudeltà inaudita, oggi minimizzato e quasi trascurato dalla storia; una storia di cui rimando la lettura attraverso Wikipedia, riguardante l'assedio di Famagosta e l'orribile assassinio del suo Capitano Generale Marcantonio Bragadin , nonchè Governatore di Cipro (il fatto è descritto molto bene nel libro di Catherwood Christopher, "La follia di Churchill, l'invenzione dell'Iraq". Questi, con dovizia di particolari, ha descritto le atrocità compiute dai turchi ottomani che occuparono l'isola, e l'orribile fine cui fu sottoposta la numerosa scorta di Bragadin, andata là con lui in pompa magna, come fossero andati ad una festa, per firmare la resa e consegnare le chiavi della città. Erano completamente disarmati, in segno di pace). Tale fatto dovrebbe essere ricordato nel futuro film di Martinelli su Marco d'Aviano, per far capire agli spettatori la ragione di così grande paura nei confronti dei turchi ottomani. Famagosta, dopo 22 anni di ininterrotto assedio - forse il più lungo della storia - dovette capitolare, per stenti e fame; nè i residenti potettero contare su aiuti di esterni, o della madre patria Venezia, perchè impegnati nei preparativi per quella che sarebbe poi stata la battaglia che tanto ha influito sul successivo corso della storia: la battaglia di Lepanto , avvenuta il 7 ottobre 1571.
A padre Marco d'Aviano andrebbe riconosciuto il merito maggiore per la vittoria delle forze cristiane su quelle islamiche nello scontro decisivo di Vienna; lo si può intuire anche leggendo la sua biografia, unita agli atti per il processo di canonizzazione ( biografia di padre Marco d'Aviano ) . Eppure, nelle enciclopedie, nei libri di storia delle scuole superiori, almeno quelli più retrodatati, Marco d'Aviano non viene nemmeno citato. Completamente trascurato. Ne è riprova il fatto che, chiedendo in giro chi sia Marco d'Aviano, pochi o nessuno saprà rispondere; dovrebbe essere almeno conosciuto in Polonia e in Austria, sua patria adottiva, e soprattutto a Vienna, dove è sepolto, vicino ai reali d'Austria. Una rivalutazione, una riscoperta del beato, da quelle parti, pare sia però avvenuta solo di recente; prima, sembra sia stato dimenticato anche là. Infatti, quando nel 1883 "si celebrò solennemente il secondo centenario della liberazione di Vienna, nei discorsi e nelle commemorazioni di circostanza non ci si ricordò nemmeno di un certo padre Marco d'Aviano, il quale era stato, vedi combinazione! - una delle cause determinanti della grande vittoria che aveva salvato Vienna, l'impero, l'Europa. Dato il tempo e il luogo, non si può certo dire che si trattasse di un silenzio casuale". E sarà forse stato anche per la probabile venerazione di cui dovrebbe godere in Polonia, che papa Wojtyla, il papa polacco, prima di morire, ha voluto beatificarlo, domenica 27 aprile 2003, chiudendo il lungo processo di beatificazione e canonizzazione . Durato 300 anni, era iniziato nel 1703, dopo appena 4 anni dalla morte di padre Marco d'Aviano (beatificazione di padre Marco d'Aviano).

Marco d'Aviano, una vita da santo eroico, tutta spesa per la conservazione dell'indipendenza politica e religiosa dell'Europa dall'invadenza islamica turca ottomana. Santa, la prima parte della vita, anche per i miracoli documentati, che gli sono stati attribuiti; defatigante la seconda, per i numerosi viaggi - molto disagevoli per quell'epoca - compiuti per raggiungere le corti d'Europa, ove era molto richiesta la presenza di un frate già in odore di santità; santa ed eroica la terza ed ultima parte della vita, per la sua onnipresenza sui campi di battaglia, da Vienna, Buda, Belgrado, per sostenere e incoraggiare i soldati, spronandoli a combattere eroicamente per la salvezza del cristianesimo, e, con esso, dell'Europa.
Pubblicato da Marshall

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domenica 18 ottobre 2009

dal blog di Marcello di Mammi http://narrare-dimammi.blogspot.com/2009/10/primo-ottobre-1561-il-sacro-militare.html

Primo ottobre 1561


IL Sacro Militare Ordine di S.Stefano

viene istituito da Cosimo I dei Medici Granduca di Toscana.

Lo scopo principale era costituire una flotta navale e da sbarco, per la difesa delle coste e dei territori toscani ed in generale italici, dai pirati barbareschi, turchi, mori e quindi dall’Islam.
“..ad Dei laudem et gloriam ac fidei Catholicae defensionem marisque Mediterranei ab infedelibus custodiam et tuitionem…” .
Il papa Pio IV con la solenne Bolla "His, quae Pro Religionis Propagatione" del 1 febbraio 1562 ne decretò la costituzione "perpetuo erigimus ac instituimus" e ne approvò lo statuto "statuimus ac ordinamus".
L’Ordine fu successivamente consacrato, il 15 marzo 1562 nella Primaziale di Pisa, dal nunzio apostolico monsignor Cornaro.Inizialmente la sede doveva essere a Cosmopoli, l'attuale Portoferraio all'Isola d'Elba. Per questioni logistiche gli venne preferita Pisa ed il porto di Livorno per la flotta.

L’ordine fu intitolato a S. Stefano papa e martire (254-257 d.c.) e fu posto sotto la regola benedettina, la scelta di questo santo è riconducibile al fatto che, il due agosto, ricorrenza della sua festa, Cosimo I ottenne due importanti vittorie a Montemurlo nel 1537 (contro gli Strozzi) e a Scannagallo nel 1554 contro i senesi.
Le principali cariche dell’ordine erano e il Gran Maestro, che era il granduca, i dodici cavalieri del consiglio supremo, il commendatore maggiore, alter ego del duca, il gran contestabile che comandava le truppe da sbarco e gli assalti, l’ammiraglio generale delle galere che era il comandante della flotta e la conduceva in battaglia, il grande ospitaliere e il priore conventuale.L’ordine comprendeva tre specie di cavalieri: i militi, gli ecclesiastici e serventi.L’accesso all’ordine era altamente selettivo ed elitario, occorreva inviare una “supplica” al Gran Maestro e superare un processo di nobiltà, con tanto di notaio e cavalieri in qualità di testimoni. Il supplicante, ossia l’aspirante cavaliere, doveva documentare la nascita da genitori uniti da giuste nozze ed in luoghi riconosciuti come città nobili, avere più di 17 anni, l’appartenenza di tutti e quattro gli avi al ceto nobile, avere un patrimonio consistente, non essere stato condannato a pene detentive ed avere sempre avuto, avi compresi, una condotta esemplare. Costituivano titoli di merito le cariche onorifiche e pubbliche, sue proprie e della famiglia.
Una volta superato il processo si procedeva alla vestizione del neocavaliere, il dignitario incaricato dall’ordine si recava nella chiesa scelta per la cerimonia, gli “percuoteva l’un e l’altra spalla” e gli consegnava l’insegna, un altro cavaliere gli offriva la spada ed altri due gli sproni dorati a simboleggiare che l’abito militare doveva essere suo per sempre, fino alle esequie, dopodiché veniva tagliato da due cavalieri. I cavalieri dovevano professare tre voti: la carità, la fedeltà coniugale e l’ubbidienza ai superiori. Dovevano sottoporsi ad una rigida disciplina ed ad un duro addestramento, in quanto si dovevano comportare da valorosi a costo di sacrificare la loro stessa vita.


Le campagne militari videro l'Ordine schierato a fianco della Spagna contro gli ottomani, con la difesa di Malta (1565).
Partecipò con la Lega Santa alla battaglia di Lepanto (1571) con dodici galee sotto le insegne papali.
Contribuì alla presa di Bona in Algeria e, dopo il riconoscimento delle capacità militaresche, l'Ordine fu impiegato contro turchi e barbareschi lungo le coste del Mediterraneo.
Risalgono a questo periodo una serie di incursioni sulle isole del mar Egeo, tenute dai turchi, le campagne in Dalmazia e Negroponte e la guerra di Corfù.

In seguito Ferdinando III di Lorena riorganizzò l’Ordine dando la prevalenza alla diplomazia ed agli accordi commerciali piuttosto che alle azioni militari, queste vennero limitate alla difesa della costa. Risale, comunque, a questo periodo un aiuto ai veneziani contro gli ottomani.
Nel 1809 l’Ordine fu soppresso dal governo napoleonico e ripristinato nel 1817.
Fu nuovamente soppresso nel 1859 da Bettino Ricasoli, presidente del consiglio dei ministri del regno d’Italia.
Tuttavia questa soppressione non fu accettata dalla dinastia dei Lorena in quanto, trattandosi di un ordine religioso consacrato dal papato, solo il papa poteva scioglierlo.

Oggi esiste ancora e l’attuale Gran Maestro è S.A.I. Sigismondo d’Asburgo Lorena, arciduca d’Austria, granduca titolare di Toscana dal 1993.

Piazza dei Cavalieri a Pisa


(Continua)

mercoledì 14 ottobre 2009

Esaltazione di Cosimo de Medici

Firenze, caduta la sua gloriosa repubblica (1530), ebbe campo di sospirare la perduta libertà, sotto il dispotico governo del duca Alessandro, che cadde infine vittima di una congiura.
Ricostruttore delle fortune medicee fu il nuovo duca, Cosimo (1537-1574), giovine principe, al quale non mancavano energia, senno politico ed equilibrio sufficiente per non abusare del potere assoluto. Cosimo si strinse a Carlo V, e, in concorso con le truppe imperiali, abbattè la libertà di Siena e assorbì gran parte del suo territorio.
L'unità regionale toscana, antica aspirazione del Comune fiorentino, fu così quasi completamente realizzata, restandone esclusi solo piccoli lembi della regione. Cosimo diede allo Stato un solido ordinamento assolutistico: riordinò l'amministrazione e le finanze; rafforzò l'organizzazione militare, promosse con savie iniziative lo sviluppo economico del paese; creò un esercito regionale, formato da elementi locali. La sicurezza della navigazione fu affidata, oltre che alla flotta ducale, ai Cavalieri di santo Stefano, un Ordine religioso-cavalleresco di nuova fondazione, che ebbe sede a Pisa nel sontuoso palazzo del Vasari, che ha tuttora il nome dei Cavalieri. Nelle lotte contro i corsari barbareschi, l'Ordine si acquistò grandi benemerenze con una vigilanza assidua sui mari e con azioni eroiche di guerra.La bonifica di paludi, la costruzione di canali e di altre opere di pubblica utilità, l'impulso dato alle industrie, specie della seta, di Firenze, di Pisa, di Siena, e ai loro commerci, i primi progetti per la costruzione del porto artificiale di Livorno, danno la misura della vitalità impressa da Cosimo all'economia toscana. Il governo complessivamente savio e benefico di lui potè mettere in ombra il suo dispotismo e non pochi suoi atti di tirannia.
L'esaltazione di Cosimo alla dignità granducale per decreto di papa Pio V (1569) rappresentò il riconoscimento del fervore, con cui egli aveva promosso nei suoi Stati il trionfo degli ideali della Riforma cattolica. Il nuovo titolo, riconosciuto poi dall'imperatore con un elevato compenso pecuniario, conferiva alla casa Medici una posizione di priorità rispetto agli altri principi italiani. Tra i successori di Cosimo, Ferdinando I (1587-1609) ebbe il merito di avere recato a termine la costruzione del porto di Livorno. Per dare il massimo incremento al porto e alla città, sorta si può dire dal nulla, il granduca concesse ampie franchigie doganali, invitò con una patente del 1593, che fu detta la "Livornina", ad abitarvi emigrati di altri paesi, senza distinzione di nazionalità, di razza e di confessione religiosa: affluirono in gran numero, contribuendo poi alle fortune del nuovo centro protestanti ed ebrei. Sotto Ferdinando, la Toscana poggiò dal lato della Francia. Il matrimonio di Maria, nipote del granduca, con Enrico IV di Francia, in un momento in cui questa nazione stava riprendendo posizione nel campo della politica internazionale, aveva il valore di un atto diplomatico, diretto a liberare la Toscana dalla tutela spagnuola.
Sotto il fiacco governo degli ultimi principi della casa Medici, che si estinse nel 1737, la Toscana era priva di ogni importanza politica, e si accentuava la decadenza economica.

Questo brano è stato trascritto traendolo integralmente da "Civiltà e Società", corso di Storia, de "La Scuola" Editrice, per la terza classe degli istituti tecnici - IV edizione 1964 - capitolo XIV.
La mia attenzione è stata attratta, e si è appuntata su questo brano, perchè contiene l'esaltazione per i Cavalieri di santo Stefano; e l'esaltazione per Cosimo de Medici, artefice della costruzione, dal nulla, della città di Livorno che, per la ponderosa presenza di canali artificiali, viene anche definita la Venezia Nuova . Cliccandovi sopra, potrete anche accedere al link della Fortezza Vecchia, detta anche "Mastio della contessa Matilde", in quanto la prima costruzione dei suoi bastioni risale forse al secolo XI (dal libro Civiltà e Società, di cui sopra).
Per un approfondimento degli argomenti qui citati, potrete trovarli accedendo al blog di Sarcastycon3, e poi navigando, ove sono descritti con dovizia di particolari inediti.

venerdì 2 ottobre 2009

Marco d'Aviano

Marco d'Aviano: chi era costui? Confesso la mia ignoranza, fino a ieri. Conoscevo quel nome, perchè a Milano, in zona Loreto-Padova, c'è una via a lui intitolata. Ma tutto lì. C'è voluto un imput da parte di Renzo Martinelli, per far si che iniziassi ad interessarmene. Renzo Martinelli è il regista brianzolo di Cesano Maderno, estimatore di Umberto Bossi. Nè dalla Rai, nè da altre reti televisive ne avevo mai sentito parlare prima, eppure, Marco D'Aviano è stato un personaggio di grande importanza per gli assetti dell'Europa moderna; al quale deve molto. Non se ne comprende, pertanto, la trascuratezza e la dimenticanza cui è stato fatto oggetto. Ed è sempre l'ardimentoso regista a ricordarci che Marco D'Aviano è stato, per l'Europa, un personaggio di gran lunga più importante, rispetto a quello che Giovanna d'Arco è stata, e rappresenta per la Francia. Proclamata santa nel 1920 da Papa Benedetto XV, per Marco D'Aviano, al quale, tra l'altro, sono stati attribuiti miracoli ancor lui vivente, c'è voluto invece l'arrivo alla soglia pontificia di un papa straniero, polacco, Papa Giovanni Paolo II, per far si che, a 304 anni dalla sua morte, Marco D'Aviano fosse stato proclamato beato, nel 2003.

L'Europa, oggi, non sarebbe stata la stessa, senza la comparsa sulla scena europea del XVII secolo, di Marco D'Aviano. Le donne europee sarebbero costrette ad abbigliarsi secondo la legge coranica; il Vaticano sarebbe la grande moschea islamica, di importanza superiore a quella che divenne la Basilica di Santa Sofia a Istanbul , perchè Roma sarebbe diventata il centro mondiale dell'islamismo; e tutte le nostre chiese sarebbero ora ridotte a rango di madrase e moschee.

Concetti, questi, ricordati da Renzo Martinelli, nel corso del programma televisivo su Rai 2, "Quello che", di sabato scorso 26 settembre. Era lì per parlare anche del suo film, Barbarossa, di prossima uscita nelle sale, prevista per il 9 ottobre.

E' stato nel corso di tale programma, che ha anche annunciato la produzione del suo film su Marco D'Aviano, la cui lavorazione inizierà l'anno prossimo, il 2010. L'opera presenterà grandi analogie col film Barbarossa. In quest'ultimo è la minuta popolazione milanese che, coalizzatasi con quella di altre città lombarde, mise in piedi quell'esercito fatto per lo più di contadini e braccianti, tutti volontari, male armati e male equipaggiati, che però, carichi di ardimento e coraggio, sconfissero l'esercito imperiale di Federico Barbarossa. Nel caso della vicenda umana di Marco D'Aviano, emerge la figura di un indomito presbitero, in abito da frate, al secolo Carlo Domenico Cristofori, nato ad Aviano nel 1631 e morto a Vienna nel 1699, che, da solo, accorrendo alle Corti d'Europa, era riuscito a vincere la noncuranza dei potenti nei confronti di Vienna, cinta d'assedio da diversi mesi dall'esercito turco ottomano, accampato fuori le sue mura, aspettando che si arrendesse per fame. Marco D'Aviano riuscì nell'intento di scuotere dal torpore principi e re europei, intenzionati, com'erano, a non fare nessun passo in aiuto di Vienna. Marco D'Aviano fece così coalizzare quegli eserciti, facendo liberare l'Europa dal pericolo di una lunga e tormentosa dominazione ottomana. L'Europa fu salva, e con essa il cristianesimo.

L'odio che gli islamici nutrono nei confronti di europei e occidentali, deriva tutto da quella loro umiliante sconfitta. Nessun'altra ragione, nemmeno quella di ordine religioso: è la tesi di Renzo Martinelli, su tale questione.

Con quella sconfitta, i turchi ottomani, che contavano nel successo su Vienna, per riprendere l'espansione dell'impero ottomano, interrotta da oltre un secolo, dovettero abbandonare ogni ambizione velleitaria. Dopo quella sconfitta, la Turchia Ottomana si trovò impelagata in una crescente e sempre più ingovernabile crisi militare economica e politica. Era così iniziato un periodo, durato oltre due secoli, durante il quale fu costretta ad occuparsi di tutt'altro che non a mire espansionistiche. In seguito, con l'avvento al potere di Mustafa Kemal Ataturk , il padre della Turchia moderna, comparso sulle scene politico-militari all'inizio del '900, la Turchia cominciò ad aprirsi alla modernità europea. Con l'avvento di Mustafa Kemal era così iniziato il cammino per quel lento cambiamento di mentalità, che sta tuttora cercando di portare la Turchia verso la modernità, e verso una totale integrazione con l'Europa.

E' da credere in questo loro proposito di cambiamento?

E' soprattutto su questa incognita che si scontrano i favorevoli e i contrari all'ingresso della Turchia nella Comunità Europea.

domenica 16 agosto 2009

Il terrorismo slavo in Venezia Giulia

IL TERRORISMO SLAVO IN VENEZIA GIULIA
Come attesta, fra gli altri, Almerigo Apollonio nel studio “La Venezia Giulia dagli Asburgo a Mussolini”, se l’unione con l’Italia fu accolta con grande favore dagli Italiani, maggioranza assoluta nella regione, presso la minoranza slava non si ebbe inizialmente né adesione, né ostilità, ma piuttosto uno stato di attesa, comunque non mosso da animosità contro il nuovo governo. Anzi, l’attività di soccorso delle popolazioni stremate dalla guerra e dalla fama, da parte dell’esercito italiano fu altamente apprezzato anche da Sloveni e Croati.
La situazione cambiò ben presto non è per l’operato italiano, bensì per quello jugoslavo (l’Apollonio su questo punto è chiarissimo). Il governo jugoslavo costituì delle organizzazioni segrete, aventi basi sul proprio suolo, ma ramificate anche inVenezia Giulia, dedite all’agitazione ed alla propaganda contro l’Italia e gli Italiani. La loro attività fece sì che buona parte della popolazione slava, in precedenza non ostile, lo divenisse invece nei confronti del nuovo stato di cui faceva parte. Infatti, sin dall’immediato dopoguerra, il governo jugoslavo sostenne l’azione di terroristi slavi dediti all’assassinio in territorio giulio-veneto.


Una breve valutazione dell’entità del terrorismo slavo in Venezia Giulia può essere dato dal seguente elenco, largamente incompleto, delle loro operazioni:Nel periodo 1920-1922 si hanno le seguenti azioni omicide ad opera dei terroristi slavi:-assassini del maresciallo della Guardia di Finanza, Postiglione, della guardia regia Giuffrida, del finanziere Plutino, del carabiniere Cecchin, della guardia regia Poldu, del tenente Spanò e del sergente Sessa, avvenuti a Trieste-assassinio del finanziere Stanganelli avvenuto a Postumiaassassinio del brigadiere dei Carabinieri Ferrara avvenuto a Pola -assassinio del soldato Palmerindo avvenuto a CarnizzaA partire dal 1924, risoltosi formalmente il contenzioso italo-jugoslavo, lo stato jugoslavo pratica una politica di doppiezza, formalmente ed ufficialmente riconoscendo il confine pattuito, di nascosto appoggiando e finanziando altri gruppi terroristici. I quali sono responsabili delle seguenti azioni:-attacco militare ai posti della Guardia di Finanza di Coterdasnizza e di Molini.-assalto compiuto da una banda di una ventina di armati, provenienti da oltre confine, attaccarono il corpo di guardia del valico confinario di Unez, uccidendone il comandante, il sottobrigadiere Lorenzo Greco.-Nell'aprile del 1926 fu attaccata a scopo di rapina la stazione ferroviaria di Prestrane, con uccisioni del ferroviere Ugo Dal Fiume e la guardia di finanza Domenico Tempesta.-Nel mese di luglio 1926 fu appiccato il fuoco ad un bosco del comune di Trieste-nel novembre 1926 avvenne un attentato dinamitardo alla caserma di San Pietro del Carso, con la morte di Antonio Chersevan, mentre rimasero gravemente feriti Francesco Caucich ed Emilio Crali.-Nella notte del 10 febbraio 1927, nelle vicinanze del castello di Raunach vi fu un'imboscata ad una pattuglia militare, con sparatoria in cui rimasero feriti Andrea Sluga e Francesco Rovina.-Nel maggio 1927 fu tesa, sulla strada tra Postumia e San Pietro del Carso, un'altra imboscata ad una di queste pattuglie, ed in essa rimase ferito il soldanto Cicimbri -il 29 dicembre del 1927 di quell'anno fu incendiato il Ricreatorio di Prosecco.-Nell'aprile del 1928, ancora a Prosecco, fu incendiata la scuola elementare, -nel maggio dello stesso anno fu incendiata quella di Cattinara e fu tentato l'incendio dell'asilo infantile dell'Opera Nazionale Italia Redenta di Tolmino.-Il 3 agosto 1928 ebbe luogo l’assassinio a tradimento della guardia municipale di San Canziano, Giuseppe Cerquenik.-nello stesso mese fu incendiato il ricreatorio della Lega Nazionale di Prosecco, -ai primi di settembre del 1928 fu incendiata la scuola di Storie-il 22 settembre 1928, a Gorizia, furono uccisi lo studente Coghelli ed il soldato Ventin che aveva cercato di fermare l'assassino del Coghelli.-Nel gennaio 1929 si ebbe la devastazione dell'asilo infantile di Fontana del Conte, -nel marzo 1929 ci fu l'assassinio, a Vermo, di Francesco Tuchtan. -Nel giugno 1929, si ebbe l'incendio della scuola di Smogliani, --nel luglio 1929 fu fatta saltare in aria la polveriera di Prosecco -nel novembre 1929 avvenne la rapina all'ufficio postale di Ranziano -nel dicembre 1929 si ebbero i tentati omicidi dell'agente Curet a S. Dorligo della Valle e della guardia Francesco Fonda.-nel gennaio 1930 vi fu l'attentato al Faro della Vittoria a Trieste, -in febbraio fu incendiato l'asilo infantile di Corgnale -sempre a febbraio fu assassinato a Cruscevie il messo comunale Goffredo Blasina.-Il 10 febbraio ci fu l'attentato dinamitardo al Popolo di Trieste, in cui morì lo stenografo Guido Neri, mentre rimasero gravemente feriti i correttori di bozze Dante Apollonio, Giuseppe Missori ed il fattorino Marcelle Bolle.-Nel maggio del 1930 furono assassinati a San Dorligo della Valle i coniugi Marangoni-nei primi giorni del settembre 1920, in uno scontro a fuoco con dei terroristi sloveni che cercavano d'introdursi in regione, fu uccisa la guardia alla frontiera Romano Moise e il suo commilitone, Giuseppe Caminada, fu gravemente ferito.Si noti come questo elenco sia approssimato per difetto, sebbene presenti un bilancio impressionante per numero di azioni terroristiche e loro gravità. Ciò che rende particolarmente gravi le azioni suddette è il fatto che esse non furono opera di gruppo clandestini indipendenti, bensì di organizzazioni terroristiche create, controllate ed organizzate dallo stato jugoslavo stesso. Lo stato jugo-slavo perseguiva una politica di doppiezza, da una parte riconoscendo ufficialmente la frontiera ottenuta dall’Italia, dall’altra costituendo dei nuclei armati terroristici, che avevano le loro sedi in territorio jugo-slavo ed erano organizzate, addestrate, armate, guidate dall’esercito jugo-slavo. L’impiego di simili strumenti non erano nuovo allo stato jugo-slavo, il quale ereditava una tradizione già propria di quello serbo, che si era servito anch’esso di organizzazioni terroristiche (“Mano Nera” e “Mano Bianca”) per combattere la presenza asburgica in Bosnia-Erzegovina.Le associazioni terroristiche jugo-slave, che prendevano il nome di “Tigr” e “Barba”, malgrado avessero il loro impianto strutturale in Jugo-slavia e fossero costituite per lo più da jugo-slavi, pure avevano naturalmente anche ramificazioni in Venezia Giulia, ed ivi svolgevano con l’appoggio dei loro sodali anche un’intensa propaganda anti-italiana, affiancata agli atti terroristici. Il terrorismo jugo-slavo in Venezia Giulia, oltre alla sua intrinseca gravità, consente di meglio comprendere ciò che realmente accadde in quella che i nazionalisti slavi presentano come “persecuzione fascista”.L’incendio dell’hotel Balkan, presentato da alcuni come il massimo atto di violenza fascista contro gli Slavi in Venezia Giulia, ebbe invece come responsabili i terroristi jugo-slavi. Il 13 luglio del 1920, in seguito alle violenze anti-italiane degli Jugo-slavi in Dalmazia, i fascisti organizzarono un comizio a Trieste. Un Italiano, Giovanni Nini, che aveva preso parte alla manifestazione ed aveva gridato frasi che sostenevano l’italianità della Dalmazia, fu accoltellato a morte da ignoti, con ogni verosimiglianza Slavi, date le circostanze. Un gruppo di fascisti si diresse allora verso il Narodni Dom, ma lo trovò circondato da oltre 400 militari Italiani, armati e schierati, e fu costretto ad arrestarsi. Però, dalle finestre del Narodni Dom piovvero addosso ai militari Italiani bombe a mano e partirono fucilate. I militari, vistosi aggrediti, si difesero aprendo il fuoco contro l’edificio. L’incendio scoppiò in seguito all’esplosione di munizioni ed esplosivi ivi contenuti, essendo il Narodni Dom sede di una organizzazione militare clandestina organizzata dallo stato jugoslavo per compiere attentati, violenze ed attività propagandistica in Venezia Giulia. Furono proprio i successivi scoppi delle armi contenute, del tutto illegalmente, nel Narodni Dom ad impedire ai vigili del fuoco ivi accorsi di spegnere l’incendio. Questa è la vera vicenda di ciò che viene presentato dai nazionalisti Sloveni stessi quale l’apice e la massima espressione dell’ “oppressione fascista” degli Slavi residenti in territorio italiano. Non si trattò di una “aggressione fascista” contro un “centro culturale”, bensì di un conflitto a fuoco fra un reparto dell’esercito regolare italiano ed un gruppo di terroristi jugo-slavi annidati all’interno dell’edificio, che avevano scagliato bombe a mano ed esploso colpi contro i militari. E’ da rimarcare come l’incendio del “Narodni Dom”, giudicato quale l’apice delle “violenze fasciste”, sia stato in realtà l’esito di uno scontro fra militari italiani, aggrediti, e terroristi jugo-slavi, aggressori.

Violenze fasciste certamente vi furono in Venezia Giulia, come in tutto il resto d’Italia, però posteriori alla violenze anti-italiane in Dalmazia ed in Venezia Giulia nel 1918-1920, per non parlare di quelle del periodo asburgico, cosicché viene a cadere la teoria cara alla sinistra comunista secondo cui le foibe e l’esodo sarebbero state una reazione alle “violenze fasciste” stesse. La verità è quella opposta: gli atti di violenza del fascismo in Venezia Giulia (neppure lontanamente paragonabili comunque all’operato dei titini) furono in risposta alle violenze terroristiche organizzate e dirette dallo stato jugoslavo. Inoltre, non si giunse mai alla costituzione di reparti para-militari, organizzati, armati ed addestrati dall’esercito, diretti ad essere impiegati sul territorio nazionale jugoslavo per compiere atti di terrorismo, quel che invece fece la Jugoslavia. Lo stato jugoslavo fu quello che, con una terminologia contemporanea, sarebbe definito uno “stato canaglia”, uno “stato terrorista”. Appartiene quindi alla Jugoslavia la responsabilità di certe violenze, (analoghe d’altronde a quelle che al principio degli anni ’20 interessarono il resto dell’Italia e buona parte dell’Europa), poiché fu la costituzione e l’attività di organizzazioni segrete e gruppi terroristici ad opera di Belgrado e dediti a sobillare gli Slavi della Venezia Giulia a mettere fuoco ad un panorama etnico sino a quel momento sostanzialmente tranquillo.
Si noti comunque che, a prescindere da tali scontri, comunque di ben modesta entità e che coinvolsero un numero ridotto di membri delle diverse comunità etniche, i rapporti fra Italiani e Slavi in Venezia Giulia continuarono ad essere sostanzialmente pacifici e cordiale anche durante il periodo fascista.
Gli stessi fascisti non erano di solito oggetto di odio dagli Sloveni o dai Croati ivi residenti, quanto di una certa indifferenza, né si deve trascurare il fenomeno, minoritario ma di non piccole dimensioni, del cosiddetto “fascismo slavo”, ovvero di Slavi giulio-veneti che avevano aderito convintamente al movimento fascista stesso.
L’INESISTENTE “PULIZIA ETNICA” FASCISTA IN VENEZIA GIULIA
I dati quantitativi dei censimenti della popolazione della Venezia Giulia, nei periodi che vanno dal 1880 al 1910 e dal 1910 al 1921, attestano come non sia avvenuta nessuna “pulizia etnica” fascista.
Per l’intera durata del primo periodo, la regione in questione fu sottoposta all'amministrazione austroungarica, mentre al termine del secondo ad essa si era sostituita, da soli tre anni, l'amministrazione italiana.
E’ ben noto come il governo asburgico perseguisse il progetto di “germanizzare e slavizzare” la Venezia Giulia, come anche la Dalmazia e l’Alto Adige, secondo le precise direttive di Francesco Giuseppe nel suo consiglio della Corona del 1866, e ciò trova conferma nei dati demografici del periodo 1866-1918, che vedono da una parte espulsioni massicce di Italiani, dall’altra un’immigrazione slava favorita in ogni modo, il tutto accompagnato da una politica persecutoria contro gli Italiani stessi, da violenze, dal mutamento coatto di un gran numero di cognomi ecc.
Può essere importante quindi vedere se il confronto tra i dati statistici dei censimenti austriaci ed italiani attesti un’operazione analoga da parte del nuovo governo, attraverso una differenza tra la popolazione slovena censita nel 1910 e quella censita nel 1921. Le rilevazioni affermano come la popolazione slovena della Venezia Giulia, che nel 1910 era composta da 326.794 unità, nel 1921 fosse passata a 258.927,con una diminuzione di 67.867 unità pari al 26,6% del totale originario del 1910.
Tuttavia, si deve tener conto del fatto che, tra le due date di confronto, ci fu la Prima Guerra Mondiale con i suoi 8,5 milioni di soldati caduti, tra i quali ben 1,2 milioni dell'Esercito Austro-ungarico, a cui si aggiunsero, nel 1919, gli effetti della cosiddette "febbre spagnola". L’epidemia di “spagnola” inflisse alla sola Italia un numero di vittime superiore a quelle dell’intero conflitto mondiale, e condusse a scene che ricordavano la Milano appestata del Manzoni, con ronde di monatti incaricati di caricare i morti. Si giunse a proibire il suono a lutto delle campane, per evitare di dare alla popolazione un’idea delle dimensioni della mortalità. Questa pestilenza fece strage non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo. La gravità di questi due eventi per quanto concerne la Venezia Giulia è innegabile, se si tiene conto di come essa fu zona di guerra per quasi l’intero conflitto e che aveva patito in modo particolare delle conseguenze della spagnola, causa la debilitazione della popolazione. Lo stesso numero assoluto di Italiani ivi residenti, prescindendo quindi da quelli immigrati, era diminuito rispetto a quello del 1910.
Inoltre, è vero che avvennero degli spostamenti di popolazione nel periodo del 1918-1921 in Venezia Giulia, però essi furono volontari, e dovuti a ragioni economiche.
1] Il governo austriaco aveva immesso nella regione, nel suo progetto di “germanizzare e slavizzare […] con energia e senza riguardo alcuno” (verbale del consiglio della Corona austriaca del 1866), funzionari, amministratori, militari di etnia austriaca, ungherese, nonché slovena. Anzi, persino gli impiegati delle poste, del telegrafo, delle ferrovie ecc. erano scelti preferibilmente fra gli Sloveni, sia in rispondenza del progetto suddetto, sia perché tali funzioni erano ritenute di importanza militare. Al momento del passaggio di consegne dallo stato austro-ungarico a quello italiano tutte queste persone, ovviamente, persero il loro posto di lavoro: nessun stato al mondo avrebbe conservato funzionari, militari, impiegati statali di un altro stato, per di più stranieri, e nemmeno originari della Venezia Giulia, in quanto immigrati temporanei, sia per motivi di fedeltà (come era possibile mantenere militari, funzionari ed amministratori stranieri?), sia perché l’ammissione a determinati impieghi è soggetta a precisi requisiti ed a conoscenze diverse da paese a paese.
Come accade sempre ogni qualvolta un territorio passi da uno stato ad un altro, queste persone persero naturalmente i loro posti di lavoro, per cui in maggioranza decisero volontariamente di tornare nelle proprie terre d’origine. Chi però volle restare (qual è il caso di alcune famiglie della piccolissima nobiltà tedesca di Gorizia) lo potè fare. Si trattò di una semplice, abituale ed inevitabile misura amministrativa, comune a tutti gli stati (la Jugoslavia, ad esempio, fece lo stesso sul suo territorio), e non di una “pulizia etnica”, anche perché chi volle fu lasciato libero di rimanere in Venezia Giulia. (Sono molto utili al riguardo le considerazioni di H. Angermeier, “Königtum und Staat im deutschen Reich”, München 1954). Banalmente, come l’Austria si era servita di suoi funzionari, amministratori, impiegati statali, militari in Venezia Giulia, così fece l’Italia.
2] L’unica vera emigrazione per motivi politici, e non economici, dalla Venezia Giulia alla Jugoslavia fu invece quella di poche migliaia (meno di 3000) di nazionalisti Slavi, i quali, anche qui di loro spontanea volontà, si trasferirono subito dopo la guerra nel neonato regno jugoslavo, divenendo al di là della frontiera degli agitatori, propagandisti e terroristi del proprio nazionalismo in territorio italiano. Anche in questo caso non si deve parlare di “pulizia etnica”, perché questo spostamento fu volontario, e coinvolse oltretutto un numero di poche migliaia di persone (J. A. Brundage, “The genesis of the wars: Mussolini and Pavelic”, London 1987)
3] Ancora, bisogna segnalare come anche durante il Ventennio fascista si sia avuta un’immigrazione di Sloveni dalla Slovenia alla Venezia Giulia: il J. L. Gardelles, studioso francese, calcola che almeno 20.000-25.000 Sloveni immigrarono in Venezia Giulia ed ivi presero stanzialmente residenza durante gli anni ’20 e ’30. (“Histria et Dalmatia. Peuplements: essai de synthèse”, “Journal of modern history”, VI (1980), pp. 143-214). Un simile fenomeno, accettato dal regime fascista, è incompatibile con l’idea di un progetto di “pulizia etnica”. Infatti, il censimento italiano del 1936 documentava come, pur rimanendo una netta maggioranza italiana, la percentuale di popolazione slava nella regione era cresciuta rispetto al censimento del 1921.
I diagrammi ed i dati dei censimenti dimostrano chiaramente ed inequivocabilmente la rappresentazione di come non ci sia stato alcun esodo da parte degli sloveni alla fine della Prima Guerra Mondiale. Rispetto al censimento del 1910, la percentuale di Slavi sul totale della popolazione della Venezia giulia si ridusse di 6,5 punti percentuali, per le cause sopra suddette.
Tuttavia, rispetto al censimento del 1921, la popolazione di Slavi in Venezia Giulia era cresciuta di oltre 4 punti percentuali, per lo più in seguito ad un movemento migratorio dalla Slovenia all’Italia, il che dimostra l'inesistenza di una cacciata di massa degli Slavi, essendo anzi in crescita rispetto alla popolazione italiana.
Si deve invece rilevare l’ampiezza della brutale pulizia etnica esercitata dagli sloveni sulla popolazione italiana in lstria, dove la percentuale degli abitanti italiani sul totale della popolazione si ridusse di 80 punti percentuali.

P.S. In quanto all’accusa di aver italianizzato i cognomi, questo è solo parzialmente vero. In realtà, nel periodo 1866-1918 era stato il regime asburgico a slavizzare i cognomi italiani, con l’appoggio del clero slavo. Le norme italiane erano teoricamente rivolte a ripristinare la forma originaria e corretta dei cognomi italiani così slavizzati.
Inoltre, si ebbero altri cambiamenti del cognomen da slavo ad italiano, in alcuni casi imposti, in altri volontari e su richiesta degli interessati. L’Apollonio ricorda come la maggioranza di coloro che ebbero tale mutamento nella grafia del cognome nel secondo dopo-guerra, pur potendo ripristinare la forma slava, scelsero di mantenere quella italiana. Al contrario, i cambiamenti introdotti con l’imposizione dal governo asburgico nell’onomastica non incontrarono adesione alcuna.
E’ pertanto possibile dire che in alcuni casi avvennero sì italianizzazioni di cognomi slavi contro la volontà dei titolari, ma che furono casi complessivamente limitati, in quanto di norma si trattò di ripristino dell’originaria forma italiana del cognome stesso (slavizzato dall’amministrazione austriaca) oppure di un mutamento volontario.

venerdì 14 agosto 2009

Il saluto romano

Il celeberrimo “saluto romano”, compiuto alzando il braccio destro teso o leggermente piegato, e mostrando la palma, diffusosi prima nell’Italia fascista, poi, con alcune varianti, in molti altri paesi autoritati dell’epoca, come la Germania, la Spagna, la Grecia, ed ancora oggi adoperato negli ambienti di destra, ha un’origine controversa.
La sua adozione da parte del fascismo avvenne per imitazione del saluto militare compiuto dai legionari fiumani del D’Annunzio. Il Vate, uomo di notevole cultura ed amante della classicità, presentava tale gesto quale, appunto, la forma di saluto degli antichi Romani. Non è però affatto chiaro da quali testi il poeta abruzzese avesse tratto tale idea.
In verità, gli storici non concordano sull’esistenza in epoca romana di una tale forma di saluto, perlomeno codificato dalle norme militari per i legionari o dai mores per i semplici Quiriti. Esistono fonti sia letterarie, sia iconografiche, che documentano l’esistenza di determinate forme di saluto, tuttavia bisogna interpretarle correttamente e collocarle negli specifici contesti sociali d’uso.
L’esistenza di un “saluto militare” formalizzato appare altamente probabile sulla base di alcuni passi, come di uno del De bello africo dello Pseudo-Cesare, in cui si accenna ad una salutatio more militari. Però, brani dal contenuto analogo si rintracciano, ad esempio, nel De bello civili, nella Vitae Cesarum di Svetonio, in Flavio Giuseppe ed altri autori ancora, quale Publilio Siro.
Secondo molti storici il saluto romano "classico", quello ripreso dal Fascismo, esisteva sicuramente nel periodo delle Guerre Puniche, ed era praticato, (Carocci, Storia completa della Romanità nel regime fascista, Garzanti, 1999), con il braccio destro teso all'altezza del volto. Un altro studioso, il Rome ha proposto una variante molto interessante, testimoniata da alcuni autori minori, Publilio Siro, nella Roma di Cesare. La leggenda la vuole introdotta da Mario. Avveniva così, come avete visto: il pugno destro sul cuore, e poi il braccio allungato, sempre all'altezza del volto.
Esistono numerose attestazioni di una simile forma di saluto. la famosa statua dell'Arringatore del Trasimeno la celeberrima statua dell'Augusto di Prima Porta; l’altrettanto celebre stata equestre di Marco Aurelio in Campidoglio. Alcuni storici anglosassoni ritengono che il monumento equestre di Marco Aurelio, in origine posizionato dove ora sorge la Basilica lateranense e quindi di fronte alla caserma degli equites singulares, stesse a significare il sovrano che rispondeva al saluto militare che il reparto gli stava facendo La Colonna Traiana raffigura invece una salutatio imperatoria da parte delle legioni, nella quale i milites salutano tutti insieme il principe alzando il braccio destro non esteso completamente. Una gesto praticamente identico compare in un rilievo funerario di Efeso del II secolo d.C., in cui il defunto, un militare, saluta il proprio superiore con braccio proteso in avanti ed un poco piegato, palma rivolta verso il comandante, tutte le dita unite tranne il pollice allargato. Inoltre, anche alcune raffigurazioni su monete rappresentano la stessa scena. Ancora, Giuseppe Flavio nel suo De bello iudaico segnala come i legionari, acclamando il loro comandante, alzassero tre volte il braccio destro.
Altri storici hanno però fanno notare come esista una discrepanza tra i gesti raffigurati nelle opere figurative suddette, in quanto nelle tre statue sopra ricordate, a differenza della Colonna Traianea e di alcune monete, il gesto ritratto non veda la mano interamente distesa, ma soltanto l’indice, sollevato verso l’alto, mentre le altre dita sono di solito leggermente piegate verso il basso. Questo, assieme ad altri fattori, ha indotto alcuni studiosi a ritenere che questo gesto sia quello dell’adlocutio, con cui un oratore si rivolge al suo pubblico iniziando il discorso, e non un vero e proprio saluto militare.
Altri ancora hanno proposto altre forme alternative di saluto militare, rispettivamente l’alzare la mano sull’alto verso l’elmo, in maniera analoga al saluto militare contemporaneo (documentato da due rilievi, fra cui celebre quello di Domizio Enobarbo) ed il portare la mano destra a pugno chiuso sul cuore.
Inoltre, non mancano storici che dubitano dell’esistenza di un autentico saluto militare codificato in epoca romana, ed interpretano i vari gesti sopra segnalati, tranne l’adlocutio che però era propria dell’orator, quali espressioni informali, analoghe al cenno di saluto che ancora oggi in Occidente, ed altrove, si compie verso un amico alzando un braccio.
Un discorso a parte deve essere fatto per il cosiddetto “saluto gladiatorio”, compiuto stringendosi gli avambracci, che è ritenuto essere l’equivalente della stretta di mano oggi diffusa, e che era il saluto informale e cameratesco dei legionari, (oppure dei gladiatori?), e dei semplici vires.
A modestissimo parere del sottoscritto, la frequenza con cui l’iconografia segnala il salus iuvare con il braccio destro alzato e la palma rivolta innanzi a sé, in concordanza con le testimonianze di testi letterari su una specifica salutatio fra legionari, induce a ritenere che un gesto molto simile all’attuale “saluto romano” esistesse effettivamente, perlomeno in ambito militare. La continuità di tali attestazioni nel corso dei secoli ed in periodi differenti, dalla repubblica all’impero, costituisce un’ulteriore convalida di tale ipotesi.Prove certe e definitive della veridicità di tale teoria non esistono, tuttavia tale ipotesi appare quale la lectio probabilior fra le diverse contrastanti.

domenica 26 luglio 2009

L'Esercito italiano nel Balcani nella seconda guerra mondiale

Un luogo comune di una certa propaganda comunista e filo-comunista, e più in generale di alcune correnti della vulgata giornalistica anti-italiana, è quello di accusare di “crimini di guerra” l’operato dell’Esercito italiano in Jugoslavia durante il secondo conflitto mondiale.
Coloro che diffondono tali dicerie sono frequentemente mossi da un duplice intento ideologico. Il primo è naturalmente denigrare e svilire la storia italiana, come è avvenuto sistematicamente nella storiografia di sinistra degli ultimi 60 anni. Il secondo è quello invece di giustificare e legittimare l’invasione del territorio nazionale italiano, il genocidio e la pulizia etnica compiute dai titini, l’amputazione dalla madrepatria della regione della Venezia Giulia.
Sarebbe facile rispondere a queste accuse col ricordare come gli Slavi sin dal momento della loro invasione dei Balcani, nel VII secolo d. C., abbiano proceduto ad un genocidio delle locali popolazioni latine, ed abbiano progressivamente invaso i territori italiani e latini della Venezia Giulia e della Dalmazia, in seguito con il sostegno della secolare nemica dell’Italia, la casa d’Asburgo, che perseguiva una politica smaccatamente filo-slava ed anti-italiana. Bisognerebbe ricordare le uccisioni e le violenze contro Italiani proseguite per secoli e secoli, il progetto di Francesco Giuseppe di germanizzare e slavizzare l’Alto Adige, la Venezia Giulia e la Dalmazia,[1] la cacciata di decine e decine di migliaia di Italiani da Trieste e dall’Istria ad inizio Novecento,[2] la reclusione in lager austriaci di oltre 100.000 civili italiani sudditi austriaci,[3] la violazione dei loro diritti politici e civili sotto il dominio coloniale asburgico[4] e l’istigazione governativa verso gli Slavi affinché perseguitassero gli Italiani, di cui erano invidiosi per il maggior livello economico, sociale e culturale.
Già solo tutto questo sarebbe di per sé sufficiente a rispondere a certe accuse pretestuosse, mostrando come in realtà per 1300 anni gli Italiani furono perseguitati dagli Slavi invasori, giunti nel Balcani soltanto nel VII secolo direttamente dalle steppe asiatiche.Tuttavia, è pienamente possibile rispondere agli attacchi contro l’operato dell’Esercito italiano in Jugoslavia nel 1941-1943, mostrando come esso sia stato fondamentalmente corretto, ed anzi sotto un certo aspetto esemplare.



1. LA JUGOSLAVIA DECIDE NEL 1941 DI ENTRARE IN GUERRA CONTRO L’ITALIA
2. L’ATTACCO DELLA GUERRIGLIA CONTRO IL REGIO ESERCITO ED I CRIMINI DI GUERRA DEI PARTIGIANI SLAVI
3. L’OPERATO ANTI-GUERRIGLIA DELL’ESERCITO ITALIANO
4. LA DIFESA DELLE POPOLAZIONI CIVILI DALL’AZIONE DEI PARTIGIANI
5. IL GIUDIZIO DEGLI SLOVENI SULL’OCCUPAZIONE ITALIANA. DUE VISIONI OPPOSTE
6. BIBLIOGRAFIA
7. CONCLUSIONE



1. LA JUGOSLAVIA DECIDE NEL 1941 DI ENTRARE IN GUERRA CONTRO L’ITALIA
Ad onore della verità storica, si deve subito ricordare come non sia stata l’Italia a dichiarare guerra alla Jugoslavia ed ad aggredirla, ma l’opposto.
Malgrado la Jugoslavia fosse il principale artefice della mancate rivendicazioni territoriali italiane dopo la prima guerra mondiale, avesse compiuto una pulizia etnica di Italiani in Dalmazia ed avesse fomentato il terrorismo in Venezia Giulia, il governo di Roma tentò la via diplomatica per instaurare un legame di cooperazione e di amicizia con il governo di Belgrado; grazie alla collaborazione del ministro Stojadinovic, nel 1937 venne firmato addirittura dai due governi un patto di non aggressione, un vero trattato di amicizia dove l'Italia si impegnava a rispettare l'integrità territoriale della Jugoslavia.
In seguito a trattative diplomatiche, la Jugoslavia, il 25 marzo 1941, completava il numero delle nazioni balcaniche aderenti al Patto Trpartito divenendo di fatto alleata dell’Asse. Nessuna richiesta ufficiale venne fatta dall’Asse alla Jugoslavia, ma delle conversazioni segrete la Jugoslavia doveva entrare in guerra contro la Grecia, in aiuto dell’Italia, ottenendo in compenso l’agognato sbocco al Mar Egeo con l’annessione del porto di Salonicco.Prontamente il governo inglese riusciva ad organizzare, il giorno dopo, un colpo di stato diretto dal capo dell’aviazione militare, generale Simovic. Il reggente Paolo veniva mandato in esilio,, il capo del governo arrestato, Pietro (il re fanciullo come definito da Londra) saliva al trono.Churchill il 27 marzo in un discorso proclamava: L’Impero Britannico ed i suoi alleati faranno causa comune con la nazione jugoslava. Noi continueremo a marciare e faremo in comune tutti gli sforzi fino al raggiungimento della vitoria.”
Fra UK e Jugoslavia si stringeva un patto politico e militare, il che equivaleva a dire che la Jugoslavia entrava ufficialmente in guerra contro le potenze dell’ “Asse”, mentre al contempo mobilitava l’esercito. Alla Jugoslavia gli inglesi offrirono subito un premio per la sua entrata in guerra al loro fianco, sarà l’Istria, Fiume e Zara.
Oltre ad aver infranto l’alleanza sottoscritta con l’Asse, ed ad essere di fatto e di diritto entrata in guerra contro Italia e Germania attraverso la sua alleanza politica e militare con il Regno Unito, la Jugoslavia aprì essa stessa le ostilità, attaccando per prima in direzione di Zara (città che apparteneva all’Italia dalla fine della prima guerra mondiale; i combattimenti iniziarono sin dal 28 marzo, il giorno dopo il colpo di stato di Belgrado, con l’attacco jugoslavo alle forze del generale Emilio Giglioli) e dell’Albania settentrionale, in cui stazionavano truppe italiane.
La guerra italo-jugoslava fu pertanto provocata dalla Jugoslavia, la quale:
-ruppe autonomamente il trattato di amicizia esistente con l’Italia, in seguito ad un colpo di stato orchestrato da Londra
-sottoscrisse un trattato di alleanza politica e militare con il Regno Unito, in guerra con Italia e Germania, e così facendo di fatto e di diritto dichiarando guerra a Roma e Berlino
-attaccò per prima, su Zara ed in Albania
Il conflitto italo-jugoslavo, con la sconfitta della Jugoslavia e l’invasione del suo territorio, fu soltanto la conseguenza dell’aggressione jugoslava all’Italia. Resta il fatto, innegabile, che fu la Jugoslavia a muovere guerra all’Italia (ed alla Germania), alleandosi con l’Inghilterra ed ottenendo in cambio della sua collaborazione la promessa di territori italiani.



2. L’ATTACCO DELLA GUERRIGLIA CONTRO IL REGIO ESERCITO ED I CRIMINI DI GUERRA DEI PARTIGIANI SLAVI

2.1 L’iniziale buona accoglienza delle truppe italiane e l’inizio della guerriglia ad opera dei comunisti
Come è noto, essendo entrata in guerra la Jugoslavia contro Italia e Germania, il conflitto si risolse nella rapidissima sconfitta dello stato slavo, dovuta a cause non solo militari ma anche politiche. Esso infatti era fondato interamente sul predominio dell’etnia serba su tutte le altre, tanto da avere ormai la denominazione ufficiale di “Regno dei Serbi”. Al momento dello scontro militare i soli Serbi si batterono effettivamente, mentre Sloveni e Croati disertarono in massa e non opposero alcuna resistenza agli Italo-Tedeschi.
Inizialmente, i rapporti fra governo italiano e Sloveni furono decisamente positivi, ed assolutamente non ostili. Mussolini decise di organizzare la Slovenia occidentale, sotto amministrazione italiana, in una provincia autonoma, unica in tutta Italia, unita sì al resto dello Stato, ma appunto provvista di ampia autonomia e forme di auto-governo.
Si manifestò da subito il fenomeno politico e culturale detto del “belogardismo”, con ciò intendendo l’alleanza filo-italiana degli Sloveni anti-comunisti, contraddistinta da una mentalità cattolica e conservatrice, sviluppati nella provincia autonoma di Lubiana fra il 1941 e il 1943 e tale da rappresentare per l’intero biennio della presenza italiana un fenomeno quantitativamente imponente.
Fra le personalità che aderirono al “belogardismo” si possono segnalare l’ex presidente del Consiglio della Slovenia, Marko Natlacen, assieme ad altri due ex ministri, il sindaco di Lubiana Ivo Adlesic, il rettore dell’università di Lubiana, Slavic, 105 sindaci Sloveni, ma il vero leader di questo movimento fu l’arcivescovo di Lubiana Gregorij Rozman, ancora oggi popolarissimo fra gli Sloveni.
Il conservatorismo ed il cattolicesimo, ambedue prevalenti nella cultura politica slovena di quegli anni, si univano all’ostilità verso i Serbi, che avevano imposto la loro egemonia nel regno di Jugoslavia, nell’ottenere al governo fascista italiano il consenso di buona parte della popolazione slovena.

2.2. L’inizio dell’attività partigiana in conseguenza dell’attacco tedesco all’URSS. I crimini di guerra dei partigiani
Ad una situazione quasi interamente tranquilla, nei territori italiani, seguì, dopo il 21 giugno del 1941, l’inizio dell’attività dei partigiani comunisti. Il movimento comunista internazionale era rimasto filo-nazista sin dal momento del patto Molotov-Ribbentrop, favorendo in ogni modo l’operato di Hitler, in seguito alle precise istruzioni di Stalin. Tutto questo cambiò repentinamente con l’inizio della guerra fra Germania ed URSS, cosicché anche in Slovenia e Dalmazia fece la sua comparsa la guerriglia comunista. Spiega infatti l’Oliva: “le truppe [italiane] si sono mosse per reazione ad attacchi subiti e questi, a loro volta, non sono stati determinati dalla durezza dell'occupazione, ma da fattori interni e internazionali indipendenti dal com­portamento del Regio esercito” [Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, p. 135] Come è stata la Jugoslavia ad attaccare l’Italia nel 1941, così in seguito sono stati i partigiani comunisti ad assalire per primi le truppe italiane in Slovenia e Dalmazia.
Inoltre, sin da subito i partigiani si resero responsabili di ripetute e gravi violazioni delle leggi di guerra. Giorgio Rochat, sicuramente il maggior storico militare italiano dopo Piero Pieri, ed il più competente per quanto concerne il secondo conflitto mondiale, si è soffermato anche sulla guerra balcanica dell’Italia nella sua monografia “Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta” (Torino 2005).
Anzitutto il Rochat delinea il contesto in cui operarono le truppe italiane, che è quello classico di un esercito regolare contrapposto a reparti irregolari:
“La prima cosa da rilevare è che tutti gli eserciti regolari hanno difficoltà a capire e affrontare una guerra partigiana. L'istituzio­ne militare si legittima come monopolio della violenza organizza­ta al servizio dello Stato, quindi ricerca la massima potenza di­struttiva consentita dallo sviluppo degli armamenti per un con­flitto programmato contro forze analoghe degli Stati nemici. I suoi codici di valore sono orientati a questo tipo di conflitto, definirlo «cavalleresco» sarebbe eccessivo, ma tutti gli eserciti regolari ac­cettano alcune regole di massima come il rispetto del nemico feri­to o che si dà prigioniero (non fosse che per ovvie esigenze di re­ciprocità) e dei civili, fino a quando restano civili, ossia non par­tecipano ai combattimenti. […] La cultura e l'addestramento di un esercito regolare vanno però in crisi quando si trova a occupare un paese ostile con una resi­stenza di popolo, dove ogni civile è un potenziale nemico, e deve fare fronte a una guerra partigiana condotta secondo regole tatti­che e codici di comportamento differenti da quelli «regolari». […] Quindi tende a ricorrere a solu­zioni brutali (fucilazioni, distruzioni di villaggi, deportazioni)” [Ibidem, p. 366]
In altri termini, il Rochat ricorda come il Regio Esercito si trovò a dover fronteggiare avversari i quali non rispettavano le leggi di guerra: uccisione sistematica dei prigionieri, sevizie, attacchi terroristici ecc.
Per dare un’idea del modo di condurre la guerra, bastino pochissime citazioni dall’Oliva, relative ad alcuni episodi bellici: “Decine e decine di mi­litari italiani furono ritrovati con le membra spezzate, evirati, con gli occhi enucleati […] Quando le nostre truppe poterono tornare sul luogo del­la lotta, poterono constatare che i feriti erano stati sevi­ziati: denudati tutti, alcuni evirati, conficcati i fasci del bavero negli occhi, infine tutti sgozzati […] 1 ribelli si accanirono sui feriti, ai più gravi aprirono il ventre estraendone le vi­scere, ai più leggeri spaccarono la testa a martellate e poi buttarono i cadaveri in un pozzo profondo venticinque metri.” [Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, ] Ancora, i cosiddetti “partigiani” secondo le leggi di guerra dell’epoca non potevano “ essere considerati legittimi belligeranti, ma franchi tiratori e come tali tratta­ti” Ciò avveniva per una serie precisa di ragioni: “1 ) non avevano possesso stabile di territorio, né erano insorti contro di noi al momento del­l'occupazione della Jugoslavia; 2) non facevano capo ad un governo responsabile né, per motto tempo, apparten­nero ad un'organizzazione unica; 3) erano sudditii di uno Stato che aveva concluso con noi un armistizio; 4) non portavano uniformi né, spesso, distintivo visibile a di­stanza; 5) non sempre portavano le armi apertamente; 6) non sempre rispettavano le leggi e gli usi di guerra; 7) per molto tempo non furono riconosciuti come legittimi belli­geranti neppure dalle Nazioni Unite, che tale qualifica ri­conoscevano invece ai cetnici”. [Note dello Stato Maggiore italiano, citate in Oliva, cit., p. 110]
Determinate forme di conduzione del conflitto compiute dai “partigiani”, quali gli attacchi a tradimento, gli attentati con bombe, le uccisioni di prigionieri, le torture inflitte loro ecc. erano, e sono ancora oggi, contrari alle leggi di guerra. I caratteri dell’attività di contro-guerriglia delle forze armate italiane furono quindi una reazione alle azioni criminali dei partigiani, compiute in violazione delle leggi di guerra.
Le operazioni anti-guerriglia italiane furono perciò conseguenza sia dell’attacco compiuto contro il Regio Esercito da parte dei partigiani comunisti e dovuto a fattori di ordine internazionali indipendenti dal suo operato, sia dei crimini di guerra dei partigiani.




3. L’OPERATO ANTI-GUERRIGLIA DELL’ESERCITO ITALIANO

1. Le istruzioni di Roatta. Classiche norme di anti-guerriglia, conformi alle leggi di guerra
Le istruzioni date da Roatta, comandante delle truppe italiane in Jugoslavia, erano semplici e banali norme anti-guerriglia. Citando sempre dal Rochat:
“La lunga circolare emanata il 1° marzo 1942 dal generale Roat­ta […] rappresenta un’articolata raccolta di istruzioni per 1’occupazione e la contro­guerriglia, nonché un forte appello a una maggiore combattività delle truppe; il documento piú ampio che conosciamo su questi problemi, che merita qualche attenzione” [Ibidem, p. 368]
Le istruzioni contenute sono definite dal Rochat quali “elementari”, essendo presenti nell’insegnamento di qualsiasi scuola di guerra:
“Dà per scontato un livello quanto mai basso di addestramento delle truppe e soprattut­to dei quadri (le indicazioni contenute sono elementari, materia di insegnamento in qualsiasi scuola per ufficiali) e cerca di porvi rime­dio con pagine e pagine di istruzioni.” [Ibidem, p. 368]
Le norme di Roatta prevedevano:
1) la fucilazione dei partigiani
2) l’utilizzo della rappresaglia su civili
3) la distruzione delle abitazioni di chi appoggiava i partigiani
4) internamento di coloro che appoggiavano i partigiani
5) si dovevano evitare di colpire chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e non bisognava fare ricorso a bombardamenti indiscriminati sui villaggi
Commenta il Rochat: “Sono le norme classiche dell’antiguerriglia, applicate in tutte le guerre contemporane, con ovvie varianti e qualche limitazio­ne rispetto ai secoli precedenti.” [Ibidem, p. 369]. Dello stesso parere è Gianni Oliva: “vi è stata una politica repressiva del Regio esercito, simile a quella che gli esercito occupanti di ogni nazione (comprese quelle più democratiche), attuano in un paese nemico […] dove si sviluppa una guerriglia variamente appoggiata dalla popolazione civile” [Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, p. 8]
Le istruzioni di Roatta prevedevano infatti quanto era contenuto nelle norme anti-guerriglia di tutti gli eserciti belligeranti dell’epoca, ivi compreso quello americano. Inoltre, esse risultavano pienamente conformi alle stesse leggi di guerra vigenti all’epoca, le quali consentivano la fucilazione dei combattenti irregolari, la rappresaglia e l’internamento dei civili rei di connubio con reparti irregolari.
Come appare inequivocabilmente, le direttive di questo generale non progettavano alcuno sterminio sistematico della popolazione civile, ma erano unicamente finalizzate alla repressione dell’attività partigiana. L’assenza di un piano di uccisione od anche solo cacciata degli abitanti in quanto tali si manifesta anche dalle direttive di risparmiare chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e di non servirsi di bombardamenti a tappeto sui villaggi.

2. Il giudizio di Rochat sul livello di durezza nelle operazioni di contro-guerriglia
Il Rochat non ha dubbi sul fatto che le truppe italiano agirono nel conflitto in maniera meno dura di tutti gli altri contendenti. Anzitutto, esse combatterono con scarsa determinazione:
“Tutte le indicazioni dicono che le truppe italiane affrontarono questa guerra con scarso entusiasmo e partecipazione, una testimo­nianza indiretta viene dalla necessità dei comandi di rinnovare ri­petutamente le direttive di massimo rigore” [Ibidem, p. 370]
Soprattutto, il Regio Esercito fu, tra tutti quelli impegnati nella guerra balcanica, certamente il meno feroce, tanto che le stessi eccessi furono opera di iniziative individuali o di singoli reparti, anziché la norma:
“Va co­munque ricordato che in una guerra con uno straordinario livello di atrocità e massacri da entrambe le parti, le truppe italiane fu­rono certamente le meno feroci'. Anche i piú duri ordini dei co­mandi ponevano limitazioni alle rappresaglie, come il rispetto di donne e bambini. E la repressione fu condotta con largo ricorso a fucilazioni e devastazioni, senza i massacri e le efferatezze com­piute dagli altri belligeranti, tedeschi compresi. Anche la nota fra­se della circolare di Roatta: «Si sappia bene che eccessi di reazio­ne, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti», va ri­condotta alla difesa di compagni aggrediti, non alle operazioni di controguerriglia, non può essere paragonata alle direttive hitleria­ne che avallavano a priori qualsiasi eccesso o massacro commesso dalle truppe naziste. Eccessi ci furono certamente, ma per inizia­tive individuali o di reparti minori, non come regola di condotta delle operazioni.” [Ibidem, pp. 370-371]
Lo stesso parere viene presentato da Gianni Oliva: “Sul piano militare, vi è certamente una sostanziale differenza fra la Werhmacht e il Regio esercito. Per gli strateghi tedeschi, il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione […] La violenza del Regio esercito, all’opposto, appare una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane […] Il raffronto con la brutalità tedesca è dunque improponibile, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo” [“Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, p. 7] Infatti, l’Oliva stesso spiega come si fosse avuta una fuga di civili dalla Slovenia tedesca a quella italiana, proprio perché l’occupazione italiana era più mite di quella germanica [Ibidem, p. 124]
Oltretutto, se da una parte avvennero alcuni abusi ad opera di singoli o reparti minori fra le truppe combattenti (come accade praticamente in ogni conflitto), dall’altra le unità applicarono blandamente le istruzioni anti-guerriglia ricevute, rifiutandosi spesso di eseguire gli ordini.

3. La conduzione italiana dei campi
In quanto agli internamenti di popolazione civile, essi avevano l’esclusivo fine di condurre lontano dal teatro di guerra membri rei di favoreggiamento verso i “partigiani”, come si è spiegato sopra, e rientravano appieno nelle operazion di anti-guerriglia. Le istruzioni non prevedevano affatto l’uccisione di questi civili, e le morti che avvennero a causa di malnutrizione o malattia non furono dovute ad un piano preordinato, ma ad incuria ed incapacità amministrativa. Si tratta di un caso frequentissimo, anzi del tutto comune, nei campi di prigionia e di internamento di tutta la prima metà del Novecento.
Fra l’ampia documentazione disponibile, si può ricorrere ad esempio allo studio di James Bacque “Gli altri lager”, edito da Mursia: ad esempio, il tasso di mortalità dei campi di prigionia francesi per Tedeschi nella seconda guerra mondiale fu quasi del 40%, non in conseguenza di un piano deliberato di sterminio, ma per negligenza, incuria, scarsità di fondi ecc.
Per fare un solo confronto, il tasso di mortalità medio dei lager austriaci per Italiani nella prima guerra mondiale fu del 25%, mentre nel caso del campo italiano di Arbe, decisamente il più alto fra tutti i campi italiani per Slavi, esso si aggirò sull’8,8% (1700 perdite circa, su di una popolazione calcolata dal Centro Wiesenthal nell’ordine circa 15.000 unità). Insomma, il tasso di mortalità media dei lager austriaci per prigionieri Italiani nella prima guerra mondiale fu il triplo del tasso di mortalità massimo registrato nei campi italiani destinati a Sloveni nella II guerra mondiale.
La conduzione italiana dei campi fu anzi molto superiore per capacità a quella abituale del periodo, tanto che la maggioranza del totale dei decessi dovuti alle condizioni di vita nelle sedi di internamento si ritrova proprio ad Arbe (1700 su poco più di 2000): con poche eccezioni, in quasi tutti gli altri campi italiani destinati a Slavi non si ebbero vittime di malnutrizione o malattia al di fuori di quelle per cause naturali, un risultato eccezionale per il periodo, decisamente migliore a quello degli stessi campi di prigionia americani, non che di quelli tedeschi o sovietici.



4. LA DIFESA DELLE POPOLAZIONI CIVILI DALL’AZIONE DEI PARTIGIANI
L'esercito italiano in Jugoslavia, oltre alle operazioni belliche contro i guerriglieri locali, costituì un valido strumento di protezione delle popolazioni locali dalle violenze dei “partigiani” titini e degli ustascia Croati.
Per rimanere solo alla Slovenia, la schiacciante maggioranza degli abitanti non era affatto filo-comunista, e risultava anzi vittima dell'operato dei partigiani comunisti stessi, che massacravano gli avversari politici e depredavano le popolazioni, non diversamente da quanto accadeva in Italia ad opera dei loro “compagni” della “Resistenza”. Il Regio esercito rappresentò una difesa per i civili anche dinanzi ai partigiani titini, il cui operato fu oltremodo violento ed oppressivo: «A parte le spolia­zioni di viveri e di bestiame cui la popolazione civile fu soggetta, coloro che erano ritenuti favorevoli agli occupato­ri furono proditoriamente assassinati assieme alle loro fa­miglie, interi villaggi furono saccheggiati e incendiati, fab­briche, miniere, segherie, macchine agricole, scuole, chiese furono incendiate o distrutte, uomini furono costretti ad ar­ruolarsi nelle bande, giovani donne furono rapite». (Note dello Stato Maggiore italiano, citate in Oliva, cit., p. 145). L’attività italiana di difesa delle popolazioni civili dalle violenze ed eccedi dei cosiddetti “partigiani” trovò l’alleanza di numerosi Slavi i quali preferirono combattere assieme agli Italiani anziché contro, arruolandosi nelle “MVAC”, “Milizie Volontarie Anti-Comuniste”.
Nella Dalmazia poi vigeva uno stato di "bellum omnium contra omnes" (ustascia, cetnici, comunisti), in cui ci si massacrava a vicenda: la presenza militare italiana sovente protesse le popolazioni civili, facile bersaglio delle ostilità dei "guerriglieri". I Tedeschi accusavano gli alleati italiani di «evidenti e continue pro­ve di simpatia» nei confronti dei serbi e degli ebrei che ve­nivano protetti dalle persecuzioni degli ustascia e aiutati a trasferirsi coi loro beni nella zona italiana.
E’ importante al riguardo il lavoro dell'ebreo dàlmata Menachem Shelah: "Un debito di gratitudine Storia dei rapporti tra E.I. e gli ebrei in Dalmazia (1941 - 1943)". Il Menachem, originario della Dalmazia ed in seguito divenuto professore di storia contemporanea all’università di Gerusalemme, spiega come il Regio Esercito salvò una moltitudine di ebrei dàlmati (oltre 10.000), che altrimenti sarebbero stati massacrati dagli ustascia. Non soltanto gli Ebrei furono salvati dal Regio Esercito, ma anche un gran numero di Serbi, scampati alle stragi degli ustascia grazie alla protezione offerta dall’esercito italiano.
La difesa delle popolazioni civili compiuta dall’esercito italiano contro le violenze dei comunisti e degli ustascia costituisce un fatto ben noto. Si può citare ad esempio ancora dall’Oliva: «le truppe italiane intervennero per sedare i dissidi fra le fazioni locali in lotta e per porre un ostacolo alle violenze degli ustascia regolari e irregola­ri che infierivano contro le popolazioni serbo-ortodosse e gli ebrei» […] In Croazia, partico­larmente, l'azione delle nostre autorità diretta a frenare le violenze degli ustascia, mentre destava un sentimento di gratitudine da parte della popolazione serba, inaspriva l'elemento croato e lo stesso governo, influenzato anche dai tedeschi, i quali vedevano di malocchio la protezione accordata dall'Italia alla popolazione serba e ai cetnici” (Note dello Stato Maggiore italiano, citate in Oliva, cit., pp. 110-111).



5. IL GIUDIZIO DEGLI SLOVENI SULL’OCCUPAZIONE ITALIANA. DUE VISIONI OPPOSTE
Qual è il giudizio degli Sloveni sull’occupazione italiana? Esso è ambivalente e rescisso in due visioni opposte fra loro. La memoria storica a più di 60 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale continua a dividere ancora la nazione slovena, così come altre, inclusa quella italiana.
La Slovenia è nata come stato indipendente nel 1991, separandosi dalla Jugoslavia, anche attraverso una profonda rivalutazione delle proprie memorie storiche. La concezione del proprio passato proposta per 45 anni dallo stato totalitario comunista fondato da Tito era inapplicabile alla nuova repubblica slovena, sia per le diversità nei principi costituzionali, sia per il proprio proporsi quale stato autonomo degli Sloveni, anziché degli Jugo-Slavi, i cosiddetti “Slavi del sud”.
Tale revisione storica ha inevitabilmente coinvolto la seconda guerra mondiale e la guerra civile che ha diviso gli Sloveni fra loro, tra sostenitori dell’URSS da una parte, alleati dell’Asse dall’altra.
In Slovenia si scontrano ancora oggi due memorie storiche opposte. La prima, rappresentata dalla sinistra nostalgica di Tito, interpreta quanto è avvenuto in Slovenia nel periodo 1941- 1945 quale una cosiddetta “guerra di liberazione” dagli occupanti stranieri ed assieme di resistenza contro il “collaborazionismo” della “Bela Garda” (la “Guardia Bianca” slovena) e dei domobranci, appoggiato dalla Chiesa slovena ed alleato degli Italo-Tedeschi.
L’altra memoria storica invece considera gli avvenimenti bellici come una guerra civile tra sloveni in cui la responsabilità maggiore va attribuita al comunismo e alla sua rivoluzione. La Chiesa e coloro che si opponevano al comunismo sovietico sarebbero quindi stati dalla parte giusta nel loro allearsi con Italiano e Tedeschi. Mentre i nostalgici di Tito si soffermano sull’operato compiuto dai Tedeschi, Italiani e dagli Sloveni loro nemici, i sostenitori dei belagardisti ricordano le stragi perpetrate dai partigiani, durante il conflitto e soprattutto dopo. secondo l’attuale centro-destra sloveno andrebbero pienamente rivalutati e riabilitati tutti i combattenti anti-comunisti ed anti-partigiani, alleati dell’Asse (così come, mutatis mutandis, in Italia i soldati della RSI era alleati dei Tedeschi) a cui dovrebbero essere riconosciuti tutti i diritti ed i riconoscimenti attribuiti in passato ai titini. Una legge varata da alcuni anni dal governo sloveno risulta espressione di tale tesi, riconoscendo lo status di combattenti per la patria slovena ai “domobranci” e “belagardisti”, alleati di Tedeschi ed Italiani: è come se in Italia i soldati della RSI avessero ottenuto lo stesso riconoscimento ufficiale dei partigiani.
Personaggio particolarmente caro ai “revisionisti” sloveni è il vescovo di Lubiana Rozman, alto sostenitore politico della “Guardia Bianca” slovena, favorevole alla presenza italo-tedesca e di fatto fondatore delle vasˇke straze (le guardie di villaggio), le unità militari filo-fasciste da cui scaturì la “Bela Garda”. Questo prelato fu condannato per “collaborazionismo” da un tribunale titino, ma ora i partiti di destra e la stessa Chiesa slovena hanno richiesto, ed infine ottenuto, che fosse ufficialmente riabilitato, attraverso una revisione del processo.
Il giudizio di larga parte della popolazione slovena nei confronti della guerra del 1941-1945 è quindi favorevole ai belagardisti ed ai domobranci, alleati degli Italo-Tedeschi, anziché ai titini.
Lo stesso atteggiamento delle autorità pubbliche, dopo la fine della dittatura comunista della Jugoslavia e l’indipendenza della Slovenia, è ben diverso dal passato riguardo a ciò che durante il dominio comunista erano definiti rispettivamente quali “collaborazionismo “ e “guerra di liberazione”.
Anche nel settore degli storici sloveni, non più sottoposti all’autorità del regime comunista, si è avuta una profonda revisione della storia trascorsa. E’ pioneristico al riguardo il lavoro di Bogdan Novak, Trieste, 1941-1954. The ethnic, political and ideological struggle, Chicago-Londra, 1970, tradotto in italiano col titolo Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano, Mursia, 1973.Bogdan Novak è uno Sloveno esule negli USA, la cui opera suddetta, pubblicata nel 1970, ha anche il merito indubbio di precorrere di almeno 20 anni la tendenza dell’attuale storiografia slovena a riconsiderare le modalità e la natura del regime di Tito.La nuova disponibilità degli archivi, permessa dall'instaurazione in Slovenia di un regime democratico dopo la proclamazione dell'indipendenza, e la possibilità stessa di una “revisione” storica, concessa dalla fine del sistema autoritario comunista, hanno condotto numerosi storici Sloveni a concordare ampiamente, sulla base della documentazione e delle testimonianze in lingua slovena, con molte valutazioni cui gli storici italiani erano pervenuti in precedenza, sulla base delle proprie fonti. Per un rapidissima sintesi sul “revisionismo storico” sloveno, cfr. Tone Ferenc, La storiografia sulla seconda guerra mondiale in Slovenia dopo il rivolgimento politico del 1990, pp. 139-144; Milita Kacin, Appunti sull'attuale storiografia slovena, entrambi in "Storia contemporanea in Friuli", a. XXII, n. 23, 1992, pp. 147-157
Si può quindi rimarcare come sia nella coscienza della maggioranza dell'attuale popolazione slovena, sia degli storici sloveni stessi, il giudizio verso l'esercito italiano ed i suoi alleati locali sia tutt'altro che negativo. Tale atteggiamento di condanna si ritrova invece presso i nostalgici del comunismo.


6. BIBLIOGRAFIA
Si riporta qui un’elementare e ridottissima bibliografia, a cui naturalmente devono essere aggiunti l’Oliva ed il Rochat, precedentemente citati..
Sono utili per affrontare la tematica dei conflitti nell’area jugoslava in una prospettiva di ampio respiro le seguenti opere:
Katrin Boeck, “Von den Balkankrieg zum Ersten Weltkrieg. Kleinstantenpolitik und ethnische Selbstbestimmung auf dem Balkan”, München 1996
Béla Kiràly-Dimitrije Djordjevic, “East Central European Society and the Balkan Wars”, New York 1987
Sulle origini della guerra di Jugoslavia, cfr. anche il classico di Andreas Hillgruber, “La strategia militare di Hitler”, prefazione di R. de Felice, Milano 1986, pp. 513-521, 542-543
In modo specifico sulla seconda guerra mondiale e l’invasione nazista:
Dietrich Orlow, “The Nazis in the Balkans. A Case Study of Totalitarian Politics”, Pittsburgh 1968
Martin Seckendorf, “Die Okkupationspolitik des deutschen Faschismus in Jugoslawien, Griechenland, Albanien, Italien und Ungarn (1941-1945), Berlin-Heidelberg 1992
Riguardo alle perdite in vite umane dovute alla guerra, assieme interna ed esterna, avvenuta in Jugoslavia nel 1941-1945 (escludendo quindi ciò che i titini fecero dopo il conflitto, con le “pulizie etniche” in Carinzia, Vojvodina, Dobruja e Venezia Giulia, nonché i gulag e gli enormi massacri che coinvolsero ex combattenti nazionalisti, “borghesi”, ecclesiastici ecc., di cui si è parlato in precedenza), non esiste una cifra precisa, anche se essa viene valutata abitualmente al di sopra del milione di morti.
Dusan Breznik aveva proposto 1.100.000 vittime.
Paul Mayers e Arthur Campbell in "The population of Yugoslavia” (Washington 1954) parlano di 1.067.000 vittime
Bogoljub Kočević invece suggerisce 1.014.000 caduti
L’opera di Vladimir Zerjavic “Jugoslavija-manipulacije zrtvama drugog svjetskog rata” (Zagabria 1989) calcola un totale di 1.027.000 morti Jugoslavi.
La cifra di oltre un milione di morti, assai elevata in proporzione alla popolazione jugoslava, ed ulteriormente accresciuta dalle stragi titine posteriori al conflitto (non calcolate dallo Zerjavic), fu dovuta principalmente alla guerra civile fra i vari popoli di Slavi del sud. Secondo la commissione del Senato americano sui crimini di guerra nella Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, i soli Serbi uccisi dai Croati oscillerebbero in una cifra compresa fra 300.000 e 500.000 (con ogni probabilità più vicina alla prima possibilità che alla seconda).
Per fare un confronto, la stessa commissione senatoriale indica in 8.111 i morti Jugoslavi dovuti ad azioni belliche degli Italiani. Secondo lo Zerjavic, il numero di Jugoslavi morti per mano degli Italiani sarebbe invece di circa 15.000, pertanto l’1,5% del totale.



7. CONCLUSIONE

1) L’Italia non aggredì la Jugoslavia, ma al contrario ne fu aggredita, essendo stato il regime golpista di Belgrado ad aver sottoscritto un’allenza formale politica e militare con il Regno Unito, ponendosi de iure et de facto in guerra con gli stati italiano e tedesco. L’occupazione italiana di parte dei territori jugoslavi ed il successivo conflitto sono quindi effetti dell’aggressione jugoslava all’Italia.
2) Inoltre, inizialmente i rapporti fra Sloveni ed Italiani furono distesi. L’origine degli scontri derivò dallo scatenarsi della guerriglia comunista, indipendente dall’operato delle autorità italiane e dovuta alla guerra fra Germania ed URSS. Ancora, le stesse operazioni repressive dell’esercito italiano furono una diretta conseguenza dell’operato criminale (in quanto segnato da violazioni gravi e reiterate delle leggi di guerra) dei titini. Le azioni anti-guerriglia italiane avvennero in seguito ed in reazione ai crimini di guerra dei “partigiani”.
3) Inoltre, l’occupazione militare italiana di parte della Jugoslavia consistè di normali operazioni anti-guerriglia, condotte secondo criteri classici. Esse furono di minore ferocia di quelle condotte dagli altri contendenti nel conflitto balcanico, e cercarono di risparmiare la popolazione civile. La stessa conduzione italiana dei campi fu più che buona in rapporto al periodo, e superiore a quella degli stessi campi americani di prigionia.
Alcuni eccessi furono opera di singoli o di piccoli reparti, il che avviene in ogni guerra: tuttavia, le istruzioni di Roatta e l’operato della grande maggioranza delle unità furono conformi alle leggi di guerra allora in vigore.
4) L’esercito italiano rappresentò inoltre una valida protezione per la popolazione civile contro le stragi e le violenze perpetrate dai “partigiani” titini e dagli ustascia croati, incomparabilmente superiori a quelle del Regio Esercito.
5) La maggioranza della popolazione slovena oggigiorno è anti-titina ed anzi propensa ad un giudizio positivo verso coloro che un tempo erano definiti quali “collaborazionisti”, alleati dei Tedeschi e degli Italiani. Le stragi e violenze dei “titini” compiute contro gli Sloveni surclassano quelle delle forze dell’Asse e dei loro alleati locali.








[1] Una valutazione obiettiva e veritiera della natura dell’impero asburgico, fondato sul principio dell’egemonia dell’elemento etnico austriaco, può essere introdotta ricordando la verbalizzazione della decisione imperiale espressa nel Consiglio dei ministri il 12 novembre 1866, tenutosi sotto le presidenza dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Il verbale della riunione recita testualmente: “Sua maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno” [cfr. Luciano Monzali, "Italiani di Dalmazia", Firenze 2004, p. 69; Angelo Filipuzzi (a cura di), “La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri”, Padova 1966, pp. 396]. La decisione governativa, presa al più livello dall’imperatore Francesco Giuseppe e dal suo consiglio, di procedere alla germanizzazione e slavizzazione delle regioni a popolamento italiano, Alto Adige, Venezia Giulia e Dalmazia, “con energia e senza riguardo alcuna”, attesta in maniera inequivocabile la natura discriminatoria ed oppressiva dell’impero asburgico nei confronti della minoranza italiana: si ricordi comunque come questo sia solo un esempio fra i molti della politica anti-italiana dell’Austria. Alla politica di snazionalizzazione, cacciata e vero e propria pulizia perseguito dagli Asburgo a danno degli Italiani (fra gli esempi, molti, andrebbe ricordato il quasi totale sterminio dei ladini nelle terre invase dai cosiddetti “sud-tirolesi”: i ladini, stirpe neo-latina ivi abitante sin dalla più remota antichità e latinizzatosi durante il periodo romano, furono quasi annientati dall’invasione austriaca, tanto che oggigiorno ne sopravvive solo un’esigua minoranza in terre in passato da loro interamente popolate), corrispose poi quella della Jugoslavia monarchica prima, di Tito poi.
[2] Ciò avvenne con i cosiddetti “decreti Hohenhole”, dal nome del governatore austriaco della Venezia Giulia, principe di Hohenhole, che li emanò.
[3] Famigerato in particolare quello di Katzenau, dove a centinaia perirono di fame, malattie, stenti, gli Italiani ivi imprigionati.
[4] Documentate da Attilio Tamaro in “Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia” e Giuseppe Praga in “Storia della Dalmazia”