giovedì 30 aprile 2009

I Sacri Fuochi di Beltaine - Celti

La vera festa del Primo Maggio

C'è una festa per il lavoro che gli italiani dovrebbero commemorare il 2 luglio, in aggiunta o in alternativa a quella del I° Maggio; è la data dell'affondamento della nave Arandora-Star, oppure l'evento che nel maggio 1898 spinse il Generale Bava Beccaris ad aprire il fuoco sul popolo lavoratore assiepato per le strade di Milano, che causò la morte di 80 di loro. Insomma, ne avremmo motivi nostri per "ricordare" vittime del lavoro in accorato e dovizioso silenzio, anzichè essere obbligati a seguire pedissequamente l'imposizione di festeggiare rumorosamente il ricordo di un evento doloroso: i martiri del lavoro di Chicago.

E invece del silenzio, si organizzano feste assordanti, come quella del concertone di Roma, che interessa solo una frangia, forse pur grande, di persone, ma che invece tutti sono costretti a contribuire nelle spese, pagandola in un modo o nell'altro. Quello di quest'anno, poi, gli organizzatori avrebbero avuto, nel terremoto d'Abruzzo, un motivo in più per soprassedere e dedicare quelle risorse agli aiuti per i terremotati. E Vasco Rossi, che nella pubblicità televisiva per promuovere l'evento ha parlato di solidarietà, e di voler rendere agli italiani quanto da loro ha ricevuto, sarò curioso di sapere se lo farà gratis, o dietro lauto compenso. Lo stesso discorso vale per i personaggi che si accalcheranno dietro all'evento.
Le feste dovrebbero essere indette per ricordare eventi felici, come facevano i Celti, che hanno abitato per secoli le terre del nord, Italia compresa, i quali avevano istituito la vera festa del Primo Maggio.

Il primo maggio per i Celti era motivo per grandi festeggiamenti: Beltaine il nome della festa, che grosso modo coincideva con il calendimaggio.
Floralia per i romani, Walpurgisnacht per i germani, essa si è trasfusa, al giorno d'oggi, nell'assai più profana festa del lavoro, o, peggio ancora, festa dei lavoratori. Tra le popolazioni antiche, la festa del primo maggio aveva invece valenze simboliche e religiose assai diverse che non oggi; tra i Celti, essa segnava l'inizio della metà luminosa dell'anno e le venivano associate cerimonie di diverso tipo. In Irlanda, dove la civiltà celtica è durata più a lungo, Beltine indica il mese di maggio.
Per i Celti, una delle divinità della luce era Bel, da cui Beltaine, festa della luce. Il nome Bel è forse alla radice (oppure si tratta di un alter ego) del dio Belenos, che il destino ha voluto sopravvivesse nel dialetto genovese, ad indicare la parte virile maschile (e qui Luca L. mi è stato di prezioso aiuto: vedere suo commento sul mio blog). Il "palo di Maggio", o del "Calendimaggio", o "della Cuccagna", diffuso in tutto il folklore europeo (soprattutto in Austria e Germania) sembra sia da mettere in relazione con quegli antichi festeggiamenti al dio Belenos, proprio per la forza, audacia e virilità necessarie per conquistare i premi posti alle sommità di "alti" pali. Molti aspetti della festa erano poi rivolti alla fecondità, legandola all'immagine virile del dio celto-ligure Belenos. Molti racconti descrivono questa festa come costellata di banchetti e bevute. Il fuoco rivestiva un ruolo preminente nella festa; anticamente, tra le popolazioni celtiche, si usava far passare il bestiame tra due fuochi "purificatori". Ancora oggi, nella citta di Camogli, in Liguria, si accendono due enormi fuochi simbolici per la festa che vi si celebra nei primi giorni di maggio, detta "sagra del bagnun". Si svolgevano poi riti di tipo giuridico-religioso: in tale occasione venivano consumati matrimoni "a scadenza", che sarebbero durati per un anno, cioè sino al successivo Beltaine. Questa usanza richiama da vicino alla memoria quella dell'usus, che era una delle tre forme romane di matrimonio, consistente appunto nella convivenza protratta per un anno ininterrotto della donna con un uomo: perchè l'effetto giuridico del matrimonio non si verificasse, la donna doveva allontanarsi per almeno tre notti consecutive dalla casa del convivente. Curiosamente, in Galles la festa durava proprio tre giorni (sino al tre maggio). Anche l'ebbrezza sacra era parte integrante della festa: essa permetteva il contatto con l'altro mondo.
Quella festa, quel modo di festeggiare il Primo Maggio presso i Celti è sopravissuta forse più di un millennio, fin quando cioè i Celti non furono completamente amalgamati con la civiltà romana.

Libera riduzione da RADICI, supplemento culturale a LA VECCHIA FILANDA
I sacri fuochi di Beltaine - Di Alberto Lombardo.

lunedì 27 aprile 2009

La Resistenza cancellata: Antifascisti uccisi più dai comunisti che da Mussolini

S’è appena consumata la fiera dell’ipocrisia del 25 Aprile festa della Liberazione, festa dell’antifascismo. Ma se davvero vogliamo onorare le morti degli antifascisti in 'toto', dobbiamo ricordare sia quelle deliberate dal Tribunale Speciale di Mussolini, sia quelle, ben superiori di numero, comminate nel corso dei processi di Mosca.Non è più accettabile un'ideologia ufficiale che così semplicisticamente oppone solo fascisti e antifascisti, quando si apprende che il comunismo ha massacrato più antifascisti del fascismo. Perché non entra mai nel "discorso pubblico" e tanto meno nei libri degli storici "ufficiali" il "fattore K"? Vogliamo davvero celebrare l'antifascismo? Bene perchè non riflettere sulla macelleria comunista di antifascisti e operai comunisti.I fatti, terribili, ebbero due scenari: Mosca e la Spagna. E si svolsero soprattutto a partire dal 1936. Ma già negli anni precedenti gli antifascisti italiani riparati a Mosca erano entrati nel tritacarne.Cito solo un caso fra quelli ricordati da Ugo Finetti, autore del libro “La resistenza cancellata”: l'anarchico Francesco Ghezzi. Viene arrestato nel 1929 in Urss, dov'era esule, perché, secondo il regime, egli avrebbe organizzato attentati. Gli anarchici europei non credono alle accuse e chiedono al Cremlino le prove. A ribattere beffardamente è Togliatti che - come sempre - si schiera con Stalin: “per noi comunisti, la questione delle ‘prove' è una questione che non si pone: è, anzi, una questione sciocca (...). Chiedere le prove della condanna del Ghezzi vuol dire sostenere che ogni singolo atto del governo dei soviet deve essere sottoposto a un controllo pubblico. E' evidente che a una richiesta di questo genere non possono essere favorevoli che i nemici del regime dei soviet e della dittatura proletaria".In seguito alle proteste internazionali il Ghezzi viene rilasciato nel 1931, ma tre anni dopo è di nuovo arrestato e sparisce nelle tenebre del Gulag siberiano dove muore nel 1941, a Vorkuta. ÙE' solo uno dei tanti casi. Sarà soprattutto con l'inizio del grande Terrore, verso il 1935, che l'antifascismo esule in Urss viene schiacciato da Stalin. Finetti, nel volume citato sopra , ricostruisce il ruolo terribile di Togliatti in questa tragedia, il suo scontro con Gaetano Salvemini e la drammatica lettera aperta che Victor Serge (anch'egli era stato in Urss, poi arrestato dal regime comunista e rilasciato solo grazie alla protesta internazionale) gli scrisse nel 1945, quando Togliatti era diventato ministro della Giustizia italiano: “Signor Ministro, che ne è degli antifascisti rifugiati in Urss?”.Secondo Finetti "ancora oggi si tenta di occultare soprattutto la responsabilità diretta di Togliatti in quei procedimenti giudiziari". Un esempio è il caso di Edmondo Peluso. "Nel 1964" scrive Finetti "Guelfo Zaccaria pubblica la prima documentazione su 200 antifascisti giustiziati. Il Pci nega e ci vorranno circa trent'anni perché la cifra sia riconosciuta veritiera anche da Alessandro Natta".C'è poi lo scenario spagnolo. Una delle grandi rimozioni della storiografia è il terrore che i comunisti scatenarono, su ordine di Stalin, fra gli antifascisti anarchici, socialisti, liberali, repubblicani, trotzkisti. Nel maggio 1937, scrive Paolo Pillitteri, "i comunisti, tramite la Nkvd, procedettero alla eliminazione, nella sola città di Barcellona, di 350 persone ‘nemiche', cioè trotzkiste, ferendone 2.600". Fra gli uomini di Stalin in Spagna vi furono in primo piano Orlov, protagonista delle "purghe", e - di nuovo - Togliatti, "che dirigeva il partito comunista spagnolo e le forze militari comuniste per conto di Mosca".Particolarmente clamorose (e crudeli) le eliminazioni - da parte dei sovietici - di antifascisti importanti come Nin, Berneri e Barbieri. Tutti amici di Rosselli anch'egli eliminato in quei giorni col fratello a Parigi da una fantomatica organizzazione, oggi sospettata da ricercatori scrupolosi di aver agito per conto dei sovietici (con cui i Rosselli erano allo scontro). D'altronde, dopo la vittoria franchista in Spagna, “Stalin volle l'eliminazione di non meno di 5 mila combattenti spagnoli (antifascisti, ndr) rifugiati in Urss”.Perché? Qual è lo scopo di una tale carneficina? A spiegare la guerra dei comunisti contro tutti gli altri antifascisti, secondo Pillitteri, fu proprio Togliatti su "L'Internazionale comunista" dove scriveva delle purghe staliniane. Secondo Togliatti occorreva “liberare definitivamente il movimento operaio internazionale dal lerciume trotzkista”, per questo le organizzazioni operaie dovevano essere "epurate, radicalmente e per sempre, dai banditi che sono penetrati nei loro ranghi per trascinarvi direttive e parole d'ordine fasciste".Era veramente così? Erano davvero sospettabili di "fascismo" gli epurati? E' vero il contrario. Si resta di sasso quando si scopre che proprio in quello stesso periodo del 1936 Togliatti e il suo Pci lanciano l'incredibile "Appello ai fratelli in camicia nera", che comincia con queste parole: "I Comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori. Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma. Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi... Noi non vogliamo prestarci al gioco dell'imperialismo inglese...".Questo sconcertante documento non è un imbarazzante incidente, ma esprime esattamente la strategia staliniana. A Stalin in Spagna non interessava affatto la lotta al fascismo e al nazismo. Egli perseguiva ossessivamente un altro obiettivo: l'eliminazione di tutte le possibili fonti di contagio delle idee democratiche o socialdemocratiche. E puntava a un accordo strategico con Hitler e Mussolini contro le democrazie europee.Lo constatò pure Leo Valiani in un'intervista alla "Repubblica" del 1998: "Fin dal 1937 - lo ha denunciato Trotzky - Stalin mirava a un accordo con Hitler. Avrebbe raggiunto l'intento due anni dopo con il patto Molotov-Ribbentrop". E questo infame "patto" è l'altro enorme capitolo censurato e rimosso. Sono ben pochi gli studenti italiani i quali imparano a scuola che la seconda guerra mondiale è stata scatenata da Hitler grazie al patto di alleanza stretto nell'agosto 1939 con l'Urss la quale si spartì con la Germania il bottino: la Polonia e i paesi baltici. Per ben due anni, metà della guerra, fu Stalin il grande alleato di Hitler. E i Pc europei si allinearono. Finetti ricorda il caso di uno dei fondatori del Pci, Umberto Terracini, un galantuomo, a cui ripugnava quell'alleanza col nazismo antisemita: "l'ebreo Terracini, al confino in Italia, viene espulso dal partito per aver criticato la scelta di Stalin".Fosse stato in Urss che fine avrebbe fatto? A metter fine alla sconcia alleanza nazicomunista che aveva scatenato la guerra non sarà Stalin, che avrebbe voluto intensificare il sodalizio, ma Hitler. Cosicché Tzvetan Todorov, nel suo libro sui lager, "Di fronte all'estremo", osserverà: "Che a Norimberga i rappresentanti di Stalin condannino a morte quelli di Hitler sfiora l'oscenità".A queste conclusioni ci inducono i documenti storici. Ripeto: i documenti storici. A coltivare sistematicamente la loro ignoranza e la loro "rimozione" non è l'opinione pubblica moderata, ma quella sedicente colta, quella "engagé", quella che scrive libri e articoli di storia con gli occhiali dell'ideologia. E quella che scende in piazza accanto ai “tubi digerenti” a commemorare le morti degli antifascisti, uccisi da Mussolini, sventolando bandiere rosse con falce e martello.
Needle (riassunto da Storia Libera)

sabato 25 aprile 2009

Dell'ignoranza storica

Premio Bamba all'ignoranza storica (pubblicato su ecopolfinanza)

Al sindaco di Parigi, Vittorio Feltri ha conferito il Premio Bamba di ieri sera. L'ha meritato in seguito alla frase pronunciata in un discorso, o intervista, nella quale ha dichiarato che "in Italia si trovava meglio quando sindaco di Roma era quello precedente"(Veltroni).Questo fatto, unito al contenuto di due post, che linko più sotto, e dei quali consiglio la lettura, mi porta a suppore che costui di storia sappia assai poco, mentre invece dovrebbe conoscerla quasi a menadito, dato il posto di rilievo e di prestigio che occupa. Il popolo della strada suppone infatti che chi è chiamato a svolgere ruoli di così alto livello, abbia anche un grado di cultura elevato, consono e proporzionato a quel mandato.Cosa ne sa costui dei trascorsi politici dell'ex sindaco di Roma, e quindi cosa ne sa di storia, se è giunto alla conclusione di preferire Veltroni ad Alemanno? Di Alemanno, si sa universalmente che proviene dalle fila del Movimento Sociale, il quale affonda le proprie radici storiche dove tutto il mondo sa. Ma di Veltroni? Che ne sa costui, il sindaco di Parigi? Un bel niente, a quanto pare. E non è detto che l'ideologia con la quale è stato formato Veltroni, fin da piccolo, fosse umanitariamente migliore di quell'altra; anzi, leggendo gli articoli a futura memoria, da me recensito dal blog di Anna Vercors e quest'altro, sempre de Il Mascellaro, sembrerebbe di poter affermare quasi il contrario, se in un paese come la Polonia, il regime comunista con loro confinante è "riuscito" a "disperdere" (eufemismo di tutt'altra parola) più di un milione e mezzo di polacchi, rei di essere contrari all'ideologia comunista "dilagante"che si sarebbe voluta imporre con la forza, anche lì da loro.Pensate per un attimo a cosa sarebbe successo in Europa, se non ci fosse stata una forza contraria a tale espansione (e con questo non è che voglio parlare bene di costoro: non fraintendiamoci!). E, in particolare, cosa sarebbe successo dell'Italia?Per questo si può affermare con forza che chi si candida a voler occupare certi posti, dovrebbe conoscere quasi a menadito la storia, per evitare, poi, certe misere figure, come è capitato in questo frangente al sindaco di Parigi; o, peggio ancora, che si debba poi fare "carte false" per cercare di tener nascosti certi trascorsi.

mercoledì 22 aprile 2009

sabato 18 aprile 2009

Certosa di Padula e scagliola

Nel programma del sabato di Alberto Angela, s'è oggi parlato di scagliola. Marcello sà benissimo cosa essa sia, avendone fatto una descrizione assai particolareggiata in un suo post. Sarà lui stesso, se lo vorrà, a riproporci l'argomento. Io, da parte mia, segnalo soltanto che se n'è parlato in trasmissione, descrivendo parti costruttive interne della basilica della Certosa di Padula, prodotte con la tecnica della scagliola. Ho già avuto modo di parlare della Certosa - nel frattempo messa sotto tutela dall'Unesco, come patrimonio dell'Umanità - in un mio post relativo al mio viaggio in sicilia di 28 anni fa; e, come già scrissi in quel post, la Certosa di Padula era, in quei momenti, in uno stato di pietoso abbandono. Dal servizio di oggi, di Alberto Angela, ho potuto appurare quanto sia stato fatto in questi anni, per riportarla allo splendore massimo che ebbe alla fine del 18° secolo.
Quando decisi di fare quella deviazione, nel dicembre 1980, era stato perchè un mio cliente di Seregno, e dunque un brianzolo puro sangue, m'aveva parlato della Certosa di Padula in termini così entusiastici, auspicandone tra l'altro lui stesso il salvataggio da sicuro degrado e quindi perdita, tanto da accendere in me il vivo desiderio di vederla. Il sentire da un brianzolo parlar così bene di un opera importante dell'Italia meridionale, era una rarità per quegli anni: c'era ancora molto spirito campanilistico nord- sud e viceversa sud-nord, anzi, questo, in misura forse maggiore . E fu per quella sua descrizione che affrontai quella deviazione, anzichè andare spedito verso la nostra meta siciliana; ciò che ci portò via un giorno, che avremmo invece potuto dedicare alla visita della Sicilia.
Qui di seguito, riporto uno stralcio, tratto da quel brano.

La Certosa di Padula, in quel periodo, mi era parsa come in uno stato di pietoso abbandono. Da dietro le reti di protezione, avevamo scorto cumuli di macerie che sembravano abbandonate là. A dare speranza sulla sua rinascita, s'intravvedeva, però, un certo fervore per lavori di restauro che, forse, erano stati iniziati da poco tempo. Se dovessi tornare oggi sul posto, resterei senzaltro stupito nel vedere come quei lavori, che sembravano andare assai a rilento, hanno riportato fascino, poesia e pace e raccoglimento spirituale che erano propri di quella splendida, austera, rinomata località. Coloro che, del mio nord, ne avessero sentito parlare in termini appropriati, ne venivano attratti come una calamita. Era stato proprio il caso mio.

Il massacro di Katyn? Fu solo l’inizio

Ricordiamo alcune vicende dimenticate o censurate, nonostante il recente film di Wajda e il desiderio di molti di essere informati sulla verità dei fatti non sulla versione che ne ha dato certa intelligentzia di sinistra. Ecco l'articolo di Augusto Zuliani tratto da il Domenicale del 10 aprile 2009:

Nei nostri libri storiograficamente corretti – in primis nei testi scolastici – domina ancora la tesi di una pacifica Unione Sovietica proditoriamente aggredita dalla Germania nazionalsocialista. Solo dopo l’implosione del regime di Mosca e l’apertura, parziale, dei suoi archivi, è risultato evidente come anche l’URSS fosse pronta alla guerra. Diversi storici russi e tedeschi – Valerij Danilov, Juri Gorkov, Viktor Suvorov con il suo Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale (trad. it. Spirali, Milano 2000), Joachim Hoffmann (1930-2002) e Werner Maser (1922-2007) – documentano infatti che, attaccando di sorpresa Mosca il 22 giugno 1941, Adolf Hitler anticipò semplicemente di alcune settimane le mosse del rivale. Che le forze sovietiche non fossero attestate sulla difensiva, ma positivamente proiettate a occidente, lo rivelano del resto la catastrofe a cui andarono incontro nei primi giorni di guerra e la politica di sterminio attuata durante il ripiegamento caotico e repentino che ne seguì.

Stalin, Berija e pure Kruscëv
Infatti, dopo l’attacco tedesco scattato il 22 giugno 1941, l’NKVD (Il Commissariato del popolo per gli affari interni) e l’NKGB (il Commissariato del popolo per la sicurezza dello Stato) decisero di eliminare tutti i “nemici del popolo”: e cioè i delinquenti comuni, i lavoratori coatti e i prigionieri politici accusati di “deviazionismo trotzkista” o di “sciovinismo”. Con l’NKVD di Lavrentij P. Berija che si distinse per solerzia, fu in questo quadro che si consumò il tragico crimine perpetrato nella foresta di Katyn e falsamente attribuito ai nazisti.

Chi fosse il vero responsabile dei massacri di prigionieri, lavoratori coatti o semplici civili nonché della distruzione di città intere come Chisinau, capitale della Moldovia data alla fiamme il 18 luglio, o Harkov, in Ucraina, era un interrogativo che si posero addirittura gli stessi comandi tedeschi, perplessi di fronte alle dimensioni di quei fenomeni. Per esempio, in un perplesso rapporto del comando tedesco (citato da Alfred-Maurice de Zayas nell’oramai classico The Wehrmacht War Crimes Bureau, 1939-1945, pubblicato originariamente nel 1979, quindi uscito in sette edizioni rivedute tedesche e quattro statunitensi) si legge: «Non risulta che l’ordine provenga da Stalin».

Del resto, il disfacimento dell’Armata Rossa comportò pure la disgregazione dell’intera struttura socio-economica militarizzata sovietica così che solo il terrore di massa e il controllo ferreo di ogni canale d’informazione impedì il collasso completo del regime. In questo scenario, tutto il potere si concentrò di fatto nei servizi segreti di polizia, ma, anche di principio, le responsabilità politiche degli eccidi ricaddero sull’intera nomenklatura, ivi compreso il Nikita S. Kruscëv; infatti, il futuro “destalinizzatore” prima definì «macellaio dell’Ucraina» il generale Ivan Serov, braccio destro di Berija, poi, dopo la morte di Stalin, ne approvò la nomina alla guida del KGB nel 1954.

Nella Polonia occupata dai sovietici il terrore era pratica corrente; tra il 1939 e il 1941 circa 1, 5 milioni di persone vennero arrestate e deportate, e di loro quasi il 90% morì. Inoltre, secondo lo storico statunitense Carroll Quigley (1910-1977), venne ucciso un terzo dei 320mila polacchi catturati come prigionieri di guerra dall’Armata Rossa nel 1939.

Fu poi la volta dei Paesi baltici. Il 24 giugno 1941, a Vilekya, cittadina lettone reinquadrata dai sovietici nella Repubblica di Bielorussia, caddero sotto i colpi dell’NKVD diverse decine di prigionieri politici e molti ufficiali lettoni. Il 9 luglio a Tartu, in Estonia, Paese dove addirittura un terzo della popolazione finì eliminato o deportato, furono uccisi 250 detenuti, poi gettati in fosse comuni. Particolare attenzione venne del resto riservata alla Lituania, a grande maggioranza cattolica: sempre nel giugno 1941, nel carcere di Lukis?ke?s, costruito nel 1904 dallo zar al centro della capitale Vilnius, gran parte dei detenuti fu liquidata, e tra il 24 e il 25 il “massacro di Rainiai” (dal nome della foresta nei pressi della cittadina di Tels?iai) costò la vita a una ottantina di prigionieri politici. In quel giugno disgraziato, la prigione di Pravienis?ke?s, presso Kaunas, vide consumarsi anche il massacro di 260 persone, detenuti politici, certo, ma anche tutto il personale del carcere.

Un’autentica ecatombe

Né il terrore rosso risparmiò la Finlandia, in guerra con l’URSS dal 1941 al 1944: i reparti sovietici entravano infatti regolarmente nel Paese scandinavo e ne massacravano i civili con una efferatezza documentata dalle fotografie rese pubbliche dal governo di Helsinki solo nel novembre 2006.

Più a sud, in Bielorussia, le carneficine assunsero dimensioni ancora maggiori: il 22 giugno 1941 a Grodno si contarono oltre 1700 vittime, il 24 a Berezwecz, nei pressi della cittadina di Vitebsk, i morti furono 800 (tra cui numerosi polacchi), altre migliaia di persone perirono durante le marce forzate verso est e la medesima sorte toccò alle migliaia che tra il 24 e il 27 del mese furono ancora oggetto della repressione sovietica a Chervyen, nei pressi di Minsk.

In Ucraina lo sterminio colpì soprattutto le regioni occidentali, dove forte era la presenza della Chiesa cattolica di rito greco: tra il 23 e il 30 giugno a Leopoli vennero uccisi 4mila prigionieri, epperò ancora il 5 settembre 1959 il giornale comunista locale, Radianska Ukraina, attribuiva il massacro ai “fascisti hitleriani”. Altre numerose vittime (tra le 1500 e le 4mila) furono mietute a Lutsk, quindi a Berezhany, presso Tarnopoli, tra il 22 giugno e il 1° luglio caddero 300 polacchi e molti ucraini, quindi a Vinnitsa, dove i massacrati furono 9mila. A Dubno furono uccisi tutti i prigionieri compresi donne e bambini, a Sambir si contarono 570 morti, a Simferopol, in Crimea, il 31 ottobre 1941 decine di persone vennero massacrate nella locale prigione o nei locali dell’NKVD e così avvenne pure a Jalta il 4 novembre.

Molte delle fosse comuni in cui i sovietici gettarono sommariamente i prigionieri assassinati furono scoperte dai tedeschi nel 1943, i quali invitarono immediatamente una commissione internazionale a visitarle per fare luce. Eppure quanto accadde in Ucraina venne reso noto solo dopo il 1988.

In generale, gli stermini erano motivati dal timore che le popolazioni non russe, una volta liberate dal giogo di Mosca, si schierassero con i tedeschi, cosa che peraltro spesso avvenne e spesso in mera funzione anticomunista e patriottica. Vi erano però, da parte sovietica, anche motivazioni squisitamente ideologiche. Nei pressi di Orel, per esempio, una città della Russia sud-occidentale, nel settembre 1941 vennero fucilati oltre 150 prigionieri politici e tra questi alcuni bolscevichi della prima ora poi considerati “antipartito”.

La memoria, cortissima
Eppure la verità sulle stragi rosse “dimenticate” fu nota prestissimo. Tra i primi a parlarne vi fu infatti nientemeno che Victor Kravcenko, alto funzionario sovietico riparato negli Stati Uniti nel 1944, il quale nel libro Ho scelto la libertà (trad. it., Longanesi, Milano 1948) scrisse: «Eravamo in parecchi al Sovnarkom [Consiglio dei ministri] a sapere che, più volte, i prigionieri (dei gulag e campi di lavoro) che non si potevano evacuare venivano fucilati in massa. Ciò avvenne per esempio a Minsk, a Smolensk, a Kiev, a Karkov, nella mia città natale di Dniepropetrovsk e a Zaparozhe […]. Nel kombinat per lavorare il molibdeno, a Nalcik nella Kabardino-Balkaria, Nord-Caucaso, tutti i lavoratori coatti uomini e donne furono uccisi dal NKVD prima dell’arrivo dei tedeschi». Com’è possibile che di tutto questo sangue innocente non vi sia sostanzialmente più memoria?

Segnalato da Il Mascellaro

martedì 14 aprile 2009

La caduta dei Muri di Berlino Vent'anni dopo

Scritto da Legnostorto
martedì 14 aprile 2009

Università degli Studi di Milano – Forum Austriaco di Cultura di Milano
Commissione Europea/Rappresentanza in Milano – Commission Internationale des Etudes Historiques Slaves
Forum Austriaco di Cultura di Milano – Goethe Institut – Consolato di Polonia
Consolato della Repubblica Ceca – Consolato di Ungheria – Consolato di Slovacchia
La caduta dei Muri di Berlino
Vent'anni dopo

Università degli Sudi di Milano

7 maggio 2009 – ore 9.30
Aula Magna

I "PROTAGONISTI"

Lech Walesa, Polonia
Václav Havel, Repubblica Ceca
Rudolf Seiters, Germania
György Konrád, Ungheria
Martin Butora, Slovacchia
Heinrich Neisser, Austria
Guenter Verheugen


8 maggio 2009 – ore 9.30
Sala di Rappresentanza del Rettorato

GLI "STORICI"

Austria, Horst Haselsteiner
Germania, Jürgen Kocka
Italia, Bianca Valota
Polonia, Aleksander Hall
Repubblica Ceca, Oldrich Tuma
Slovacchia, Dusan Kovac
Ungheria, Laszlo Csorba





Per informazioni rivolgersi a prof. Bianca Valota
bianca.valota@unimi.it

mercoledì 8 aprile 2009

Per chi vuole la Turchia in Europa.

Postato 07/10/08
7 ottobre 1571 la terza battaglia di Lepanto.
Anche quest'anno, come consuetudine, posto alcune notizie sulla famosa battaglia nel suo contesto storico. All’epoca il sultano dell'Impero ottomano era Selim II.
Il precedente: Famagosta 4 agosto 1571
Dopo aver firmato la resa Marcantonio Bragadin si recò infatti da Lala Mustafa pascià,comandate in capo delle forze turche, per discutere i termini della futura pace. Ed essendo uomo ligio alla forma si recò in gran pompa: a cavallo d'un destriero squisitamente barbato, indossando la toga viola del Senato, scortato da quaranta archibugieri in alta uniforme e dal bellissimo paggio Antonio Quirini (il figlio dell'ammiraglio Quirini). Ma di pace non si parlò davvero. Perché in base al piano già stabilito i giannizzeri sequestrarono subito il bellissimo Antonio. Lo chiusero nel serraglio di Lala Mustafa che i giovinetti li deflorava ancor più volentieri di Maometto II, poi circondarono i quaranta archibugieri e a colpi di scimitarra li fecero a pezzi. Letteralmente a pezzi. Infine disarcionarono Bragadino, seduta stante gli tagliarono il naso e le orecchie, e così mutilato lo costrinsero a inginocchiarsi dinanzi al vincitore che lo condannò ad essere spellato vivo. L'esecuzione avvenne tredici giorni dopo, alla presenza di tutti i ciprioti cui era stato ingiunto d'assistere. Mentre i giannizzeri lo schernivano per il volto senza naso e senza orecchie, Bragadino dovette far più volte il giro della città trascinando sacchi di spazzatura e leccando la terra ogni volta che passava dinanzi a Lala Mustafa. Poi il supplizio finale. Morì mentre lo spellavano. E con la sua cute imbottita di paglia Lala Mustafa ordinò di fabbricare un fantoccio che messo a cavalcioni d'una vacca girò un'altra volta intorno alla città quindi venne issato sul pennone principale della nave ammiraglia. A gloria dell'Islam.” Estratto e riassunto dal libro Jihad dello storico Paul Fregosi.
S. Pio V non risparmiò alcuna energia per dar vita ad una Lega, detta Lega Santa, che comprendeva Venezia, che sostenne anche lo sforzo maggiore, la Spagna di Filippo II, la Repubblica di Genova, il ducato di Savoia, gli Ospitalieri di San Giovanni e il Granducato di Toscana, con in particolare i Cavalieri del Sacro Militare Ordine Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire.In totale la flotta cristiana si componeva di 6 galeazze, 206 galee, 30 navi da carico, circa 13000 marinai, circa 44000 rematori, circa 28000 soldati con 1815 cannoni.E' singolare che questo compito toccasse ad un Papa che meno di altri aveva interesse a assumere impegni militari, a dimostrazione del fatto che quando la necessità lo impone, alla preghiera e al digiuno possono essere uniti i cannoni.
Lepanto 7 ottobre 1571 Golfo di Patrasso.
Il giorno della grande battaglia navale.

La flotta la comandava Don Giovanni d'Austria sulla sua galea Real spagnola, che era affiancata dalla capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano Generale veneziano,dalla Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio,dalla capitana di Ettore Spinola, Capitano Generale genovese,dalla capitana di Andrea Provana di Leyni, Capitano Generale piemontese, e dall’ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, Capitano Generale dei Cavalieri di Malta. i cavalieri di S.Stefano con 12 navi erano inquadrati nella flotta papalina.

La battaglia era durata poco più di quattro ore. Erano morti 40.000 turchi e solo 25 galee furono salve. La potenza navale ottomana era finita per sempre.
San Pio V, che aveva trascorso le ore della battaglia in preghiera dinanzi all'effigie della Madonna della Salute, nella Chiesa di S. Maria Maddalena, stabilì in segno di ringraziamento alla Vergine al 7 ottobre la festività di Santa Maria della Vittoria che fu estesa da Clemente XI a tutta la Cristianità e definitivamente fissata al 7 ottobre da Leone XIII.


Gallerie dell'Accademia Venezia

Lo scontro durissimo si concluse quando fu abbordata l’ammiraglia turca di Alì Pascia e, sebbene il comandante don Giovanni d'Austria avesse impartito alla flotta cristiana l'ordine di catturarlo vivo, gli furono estirpati i denti, quindi fu decapitato e la sua testa venne ostentatamente infilzata su una picca. Ciò provocò il panico fra le file ottomane e portò al collasso morale, contribuendo non poco alla rotta che determinò la vittoria della flotta cristiana.

La testa fu portata al cospetto,così si dice, del sultano Selim II come si vede nel quadro del pittore albanese Agim Sulaj.


Il sogno di stabilire lo "Stato Islamico d'Europa" si bloccò soltanto nel 1683. Cioè quando il Gran Visir Kara Mustafa mise insieme mezzo milione di soldati più mille cannoni,cavalli, cammelli, elefanti ed una grande quantità di vettovaglie ed entrò in Austria, eresse un immenso accampamento (venticinquemila tende a parte la sua, munita di struzzi e pavoni e fontane)e raggiunse Vienna che per la seconda volta finì sotto assedio. Il fatto è che a quel tempo gli europei erano più intelligenti di quanto lo siano oggi. Ed esclusi i francesi che anche allora se la facevano con l'Islam (Trattato di Alleanza firmato dal Re Sole) ma che agli austriaci avevano promesso di restar neutrali, tutti corsero a difendere la città ormai considerata il baluardo del Cristianesimo. Tutti. Inglesi, spagnoli, tedeschi, ucraini, polacchi, genovesi, veneziani, toscani, piemontesi, pontifici.

Il 12 settembre riportarono la straordinaria vittoria che costrinse Kara Mustafa a fuggire abbandonando anche i cammelli e gli elefanti, gli struzzi e i pavoni.Le concubine e le mogli, per evitare che cadessero in mano ai cani-infedeli, Kara Mustafa le sgozzò una ad una.

L'attuale invasione dell'Europa non è che un altro aspetto di quell'espansionismo, di quell'imperialismo, di quel colonialismo a cui l’islam non ha mai rinunciato.

Oggi, europei vigliacchi e traditori dei valori della nostra Civiltà favoriscono l’ islamizzazione delle nostre Nazioni.

martedì 7 aprile 2009

Costantino e la «libertas Ecclesiae»

Con l'Editto di Milano l'Imperatore riconosce «ai cristiani e a tutti gli altri» la libertà di seguire la propria religione. Dal culto al dio Sole alla conversione al cristianesimo.
Intervista di Emanuele Boffi


Due editti: l'editto di Serdica del 311, firmato da Galerio; l'editto di Milano del 313, opera di Costantino. In mezzo un evento misterioso e sconvolgente: la conversione di Costantino e la sua vittoriosa battaglia a Ponte Milvio il 28 ottobre del 312. Un fatto capitale che apre le porte della società romana ai cristiani, fino ad allora formalmente discriminati, anzi perseguibili e sanguinosamente perseguitati. Due editti che centrano lo stesso tema, la tolleranza religiosa verso quegli irriducibili seguaci di Cristo, ma con parole molto diverse: Galerio concede a denti stretti la libertà ai discepoli di Gesù, Costantino scolpisce il principio della «libertas Ecclesiae», con un salto in avanti vertiginoso. Marta Sordi, già professore ordinario di Storia greca e romana alla Cattolica, s'interroga da molto tempo su quella singolare concentrazione di avvenimenti che hanno sconvolto la storia dell'Occidente: «L'editto di Serdica afferma che i cristiani hanno sbagliato, ma che l'imperatore concede loro il perdono, anche perché Galerio era malato, aveva paura di morire e sperava di ingraziarsi il Dio dei cristiani. Costantino invece definisce il confine insuperabile dell'azione di Cesare, sottolineando il valore della coscienza».


La distinzione dei piani
Dice proprio così Costantino: «Ut daremus et christianis et omnibus liberam potestam sequendi religionem quam quisque voluisset». La Sordi traduce il passo: «Per dare ai cristiani e a tutti gli altri il potere di seguire la religione che ciascuno vorrà». Dove già quel «christianis», accanto a «omnibus», a tutti gli altri, indica che i cristiani, i seguaci di Gesù, erano stati un osso duro, durissimo, una fonte di conflittualità permanente per trecento anni: dunque garantire la libertà a loro voleva dire misurare fino in fondo la profondità della parola libertà, riconoscere lo spazio inalienabile della coscienza e porre le basi della futura civiltà occidentale, basata sulla distinzione dei piani: Dio, da una parte, e Cesare, dall'altra, e sull'esaltazione dell'io. Con quel passo, Costantino non solo riconosce la «libertas Ecclesiae», ma la libertà di ciascun essere umano. E infatti la Sordi si affretta a leggere un altro passaggio dell'editto: quello in cui l'imperatore spiega che ciascuno potrà seguire la religione più adatta alla propria coscienza. Testuale: «Qui... ei religioni mentem suam dederet quam ipse sibi aptissimam esse sentiret».

Insomma, il legame con il Dio cristiano porta a definire la sfera della coscienza e questa conquista, da lì in poi, varrà per tutti: «christianis» e «omnibus».

In mezzo c'è la battaglia di Ponte Milvio, il sogno misterioso di Costantino; prima secoli e secoli di storia romana che, secondo la studiosa, preparano l'avvenimento, nutrono, come si nutre un bambino che diventa uomo, la parola libertà, formano la cultura su cui s'innesterà quel repentino cambiamento.

La visione di Costantino
Che cosa avviene il 28 ottobre del 312? Eusebio di Cesarea e Lattanzio descrivono la visione che provocò la conversione dell'imperatore, ma la Sordi preferisce privilegiare un panegirico pagano del 313. «È molto interessante, perché l'autore dice che Costantino ha avuto l'appoggio di un dio supremo che non viene mai nominato, di cui nemmeno si sa il nome, che l'ha fatto prevalere sul rivale Massenzio. Per me questo significa che la cultura pagana del tempo registrò come qualcosa di eccezionale: un'esperienza forse mistica, certo qualcosa che portò Costantino ad abbracciare la religione di Cristo e a chiudere definitivamente la porta agli dei del Campidoglio».

Insomma, quel giorno capita qualcosa di particolare riassunto con la visione in cui Costantino vede sul Sole la croce vittoriosa di Cristo. «Certo, la conversione di Costantino fu anzitutto quella dell'imperatore che si era convinto della verità del Dio cristiano e della forza del cristianesimo, prima ancora che quella dell'uomo toccato nel cuore, ma questo non significa che Costantino avesse fatto un qualche calcolo politico o militare o comunque puramente umano e nemmeno che coltivasse l'ambizione di sfruttare l'altare per rafforzare il trono. La verità è che a quell'epoca i cristiani erano ancora una minoranza, specie a Roma, e che il potere culturale era nelle mani dei pagani. Dunque, Costantino non sposò la convenienza, ma semmai intuì in qualche modo la forza anche sociale e culturale del cristianesimo e soprattutto si convinse che il Dio cristiano era non solo il più forte, ma l'unico».

La vittoria di Ponte Milvio
Il percorso seguito dall'imperatore, per la professoressa, è chiaro: Roma non aveva mai amato la divinizzazione del potere temporale; gli stessi imperatori spesso rifiutavano i sacrifici in loro onore; insomma certi modelli orientali in Italia e in Occidente non funzionavano del tutto. Roma non amava gli abbracci soffocanti fra sacro e profano. «Ma questo - riprende la Sordi - non significa che i romani non fossero religiosi: per essi la religione era il fondamento dello Stato, la cui forza poggiava sull'aiuto divino e sull'alleanza con la divinità (pax deorum). [...]

In questa situazione molto aperta ed elastica arriva il cristianesimo. Certamente la più irriducibile, la più incomprensibile, la più rivoluzionaria delle religioni. E infatti è l'unica a non essere «sdoganata». «I cristiani adoravano un Dio non riconosciuto dallo Stato e che escludeva tutti gli dei dell'impero. Di qui l'accusa di ateismo e l'ostilità di una larga parte dell'opinione pubblica, che impedì fino a Gallieno (260 d.C.) ogni riconoscimento».

Dopo l'ultima persecuzione, quella di Diocleziano continuata in Oriente da Galerio fino al 311, avvenne il riconoscimento pieno del cosiddetto Editto di Milano: «Sulla linea del padre Costanzo Cloro - osserva la Sordi - Costantino era un seguace del culto solare che vedeva nel Sole, onnisciente e onnipotente, il "summus deus" dai molti nomi. La visione riferita da Eusebio nella "Vita di Costantino" e il sogno riferito da Lattanzio indussero Costantino a riconoscere nel dio dai molti nomi l'unico Dio cristiano e a superare lo stesso culto solare, cercando nell'alleanza con il Dio cristiano la salvezza dell'impero. Il diritto della divinità di essere adorata come vuole fonda così nell'Editto la libertà del singolo di adorare il Dio a cui liberamente la sua coscienza si volge». Vince a Ponte Milvio mettendo la croce sugli scudi, si converte, scrive l'editto di Milano. E così nel 313 la libertà viene sancita per tutti: «christianis et omnibus».

Fonte

giovedì 2 aprile 2009

Alle foci del Timavo 2°parte

La 1° GM fu una guerra di estenuanti attese nelle trincee e di assalti furibondi all’arma bianca per la conquista metro a metro del territorio. Senza niente togliere agli altri soldati impegnati sulle Alpi, possiamo dire che la guerra sul Carso, data la particolare morfologia del terreno, fu veramente durissima.




Le due foto sono dovute al lavoro encomiabile del gruppo di speleologi di Monfalcone che hanno ricostruito lo svolgimento delle battaglie su Carso, nella zona dove fu operativa la Brigata Toscana.(da Natura Nascosta)

La “Brigata Toscana” composta dai reggimenti 77°e 78° Lupi di Toscana è indissolubilmente legata a Gabriele d’Annunzio e al Maggiore Giovanni Randaccio.

Le loro storie si intrecciano talmente che il Poeta, pur avendo ideato e partecipato ad imprese clamorose, come il volo su Vienna, la beffa di Buccari e tante altre ancora, resterà per tutta la vita legato al ricordo del periodo, che trascorse con “ I Lupi di Toscana”.


Lo schieramento delle truppe nel settore del Timavo.


La mattina del 23 maggio la 3ª Armata al comando di Emanule Filiberto Duca d'Aosta fu cosi schierata:


XIII Corpo d’Armata da Castagnevizza al Vallone di Iamiano;

IX Corpo d’Armata in linea dall’altura del Faiti fino alle porte di Castagnevizza;

VII Corpo d’Armata da quota 144 fino al mare.

La riserva della 3ª Armata era formata da:

XIV Corpo d’Armata al comando del Tenente Generale Sagramoso con la 21ª e

28ª Divisioni posizionate nella zona di Castion di Strada, Porpetto e Ruda; la 20ª

“Divisione nella zona di Fogliano e San Michele del Carso; 4 battaglioni di Bersaglieri ciclisti ad Aquileia.

Il totale dei soldati e dei mezzi a disposizione della 3ª Armata era di 208 battaglioni, 4 squadriglie e 1170 pezzi d’artiglieria divisi in 489 di piccolo calibro, 646 di medio calibro, 35 di grande calibro, oltre che la disponibilità di 536 bombarde.


Riguardo allo schieramento avversario, il Comando Supremo Italiano era stato informato che al fronte nessuna nuova forza era giunta in rincalzo al nemico.

Pertanto la 5ª Armata austroungarica del III settore era composta da:

VII Corpo d’Armata con le Divisioni 44ª Standschutzen, 17ª e 41ª Honved;

XXIII Corpo d’Armata con le Divisioni 10ª, 7ª, 16ª e con la 28ª Divisione in riserva.

La riserva della 5ª Armata austrungarica era inizialmente composta da quattro Divisioni, ma solamente due, la 9ª e la 48ª, erano disponibili per essere impiegate sul Carso.” (da Natura Nascosta Gruppo Speleologico Monfalconese ADF, dall’articolo: 77° E 78° REGGIMENTO FANTERIA “LUPI DI TOSCANA”.LE OPERAZIONI DEL MAGGIO 1917 NEL SETTORE DI MONFALCONE“TUSCI AB HOSTIUM GREGE LEGIO VOCATI LUPORM”di Riccardo D’Ambrosi.)

La Brigata Toscana, con al comando il Generale Breschi con il 77° e 78°rgt. faceva parte del VII corpo d’armata. Nell'offensiva, del novembre del 1916 sul Carso, Giovanni Randaccio, da capitano, alla testa di un battaglione si era lanciato all'assalto del Veliki e del Faiti, dove l’esercito nemico aveva poderose fortificazione, trincee ed era ben agguerrito, facendo sventolare, sulle posizioni conquistate, la bandiera tricolore portata da d'Annunzio sulla linea del fuoco. In seguito a quell'azione era stato promosso maggiore per meriti di guerra. Il 28 maggio del 1917, truppe della 45a divisione furono lanciate verso Duino. Il 77° reggimento fanteria della brigata "Toscana" stava quasi per raggiungere la mèta quando ricevette ordine di ritirarsi. Il maggiore Giovanni Randaccio, Gabriele d'Annunzio, con pochi fanti, erano in prima linea sotto una pioggia di proiettili nemici. Portavano con loro la grande bandiera che d’Annunzio avrebbe voluto piantare sulla sommità del castello di Duino. Dovendo ripiegare, per l’ordine ricevuto dal comando, Randaccio e d'Annunzio, dopo essersi assicurati che i fanti fossero rientrati, rimasti ultimi, stavano attraversando, su una passerella improvvisata, il Timavo, quando il maggiore fu ferito a morte. Aveva 34 anni.


foto-primo-monumento11

Giovanni Randaccio fu sepolto nel cimitero di Aquileia e d’Annunzio, nell’orazione funebre, narrò l'eroica morte dell'amico e ne coprì la salma con la bandiera del Timavo.

Al Maggiore Randaccio, in seguito, fu conferita la medaglia d'oro al valor militare con la seguente motivazione:

"Manteneva sempre vivo nel suo battaglione quello spirito aggressivo col quale lo aveva guidato alla conquista d'importanti posizioni nemiche. Attaccava quota 28, a sud del Timavo, con impareggiabile energia, e, nonostante le gravi difficoltà, l'occupava. Subito dopo, colpito a morte da una raffica di mitraglia, non emise un solo gemito, serbando il viso sereno e l'occhio asciutto; portato alla Sezione di Sanità vi soccombette mantenendo anche di fronte alla morte quell'eroico contegno che tanto ascendente gli dava sulle dipendenti truppe quando le guidava all'assalto".

E ai reggimenti dei Lupi di Toscana:


" Con impeto irrefrenabile assaltarono e travolsero le più formidabili posizioni, con orgogliosa audacia cercarono e sostennero la lotta vicina, fieramente sprezzando i più gravi sacrifici di sangue ed acquistando fama leggendaria, si che il nemico sbigottito ne chiamò " Lupi " gli implacabili fanti. (Veliki-Fajti, 1-3 novembre 1916; Floudar - S. Giovanni di Duino - Foci del Timavo, 23-30 maggio 1917; 23 agosto - 3 settembre 1917; Tagliamento: 2-3 novembre 1918 ) ". (Bol1. Uff. anno 1920, disp. 47 e 86) .

Da allora i soldati del 77° e 78° reggimento, portano sul petto a sinistra, un distintivo dorato con due teste di lupo e il motto che compare sullo stemma dei reggimenti è: "Tusci ab hostium grege legio vocati luporum”

Gabriele d’Annunzio, raccolse le reliquie del suo amico e le gocce di sangue, che avevano intriso la divisa e le mostrine, le fece inserire in cristalli, come pietre preziose, ed incastonare in una Croce: la Croce del Sangue.




Conservò questa Croce fino al 1924 anno in cui la donò ai suoi Lupi. Ecco la lettera con cui il Poeta accompagnò la donazione:









(continua)