domenica 26 luglio 2009

L'Esercito italiano nel Balcani nella seconda guerra mondiale

Un luogo comune di una certa propaganda comunista e filo-comunista, e più in generale di alcune correnti della vulgata giornalistica anti-italiana, è quello di accusare di “crimini di guerra” l’operato dell’Esercito italiano in Jugoslavia durante il secondo conflitto mondiale.
Coloro che diffondono tali dicerie sono frequentemente mossi da un duplice intento ideologico. Il primo è naturalmente denigrare e svilire la storia italiana, come è avvenuto sistematicamente nella storiografia di sinistra degli ultimi 60 anni. Il secondo è quello invece di giustificare e legittimare l’invasione del territorio nazionale italiano, il genocidio e la pulizia etnica compiute dai titini, l’amputazione dalla madrepatria della regione della Venezia Giulia.
Sarebbe facile rispondere a queste accuse col ricordare come gli Slavi sin dal momento della loro invasione dei Balcani, nel VII secolo d. C., abbiano proceduto ad un genocidio delle locali popolazioni latine, ed abbiano progressivamente invaso i territori italiani e latini della Venezia Giulia e della Dalmazia, in seguito con il sostegno della secolare nemica dell’Italia, la casa d’Asburgo, che perseguiva una politica smaccatamente filo-slava ed anti-italiana. Bisognerebbe ricordare le uccisioni e le violenze contro Italiani proseguite per secoli e secoli, il progetto di Francesco Giuseppe di germanizzare e slavizzare l’Alto Adige, la Venezia Giulia e la Dalmazia,[1] la cacciata di decine e decine di migliaia di Italiani da Trieste e dall’Istria ad inizio Novecento,[2] la reclusione in lager austriaci di oltre 100.000 civili italiani sudditi austriaci,[3] la violazione dei loro diritti politici e civili sotto il dominio coloniale asburgico[4] e l’istigazione governativa verso gli Slavi affinché perseguitassero gli Italiani, di cui erano invidiosi per il maggior livello economico, sociale e culturale.
Già solo tutto questo sarebbe di per sé sufficiente a rispondere a certe accuse pretestuosse, mostrando come in realtà per 1300 anni gli Italiani furono perseguitati dagli Slavi invasori, giunti nel Balcani soltanto nel VII secolo direttamente dalle steppe asiatiche.Tuttavia, è pienamente possibile rispondere agli attacchi contro l’operato dell’Esercito italiano in Jugoslavia nel 1941-1943, mostrando come esso sia stato fondamentalmente corretto, ed anzi sotto un certo aspetto esemplare.



1. LA JUGOSLAVIA DECIDE NEL 1941 DI ENTRARE IN GUERRA CONTRO L’ITALIA
2. L’ATTACCO DELLA GUERRIGLIA CONTRO IL REGIO ESERCITO ED I CRIMINI DI GUERRA DEI PARTIGIANI SLAVI
3. L’OPERATO ANTI-GUERRIGLIA DELL’ESERCITO ITALIANO
4. LA DIFESA DELLE POPOLAZIONI CIVILI DALL’AZIONE DEI PARTIGIANI
5. IL GIUDIZIO DEGLI SLOVENI SULL’OCCUPAZIONE ITALIANA. DUE VISIONI OPPOSTE
6. BIBLIOGRAFIA
7. CONCLUSIONE



1. LA JUGOSLAVIA DECIDE NEL 1941 DI ENTRARE IN GUERRA CONTRO L’ITALIA
Ad onore della verità storica, si deve subito ricordare come non sia stata l’Italia a dichiarare guerra alla Jugoslavia ed ad aggredirla, ma l’opposto.
Malgrado la Jugoslavia fosse il principale artefice della mancate rivendicazioni territoriali italiane dopo la prima guerra mondiale, avesse compiuto una pulizia etnica di Italiani in Dalmazia ed avesse fomentato il terrorismo in Venezia Giulia, il governo di Roma tentò la via diplomatica per instaurare un legame di cooperazione e di amicizia con il governo di Belgrado; grazie alla collaborazione del ministro Stojadinovic, nel 1937 venne firmato addirittura dai due governi un patto di non aggressione, un vero trattato di amicizia dove l'Italia si impegnava a rispettare l'integrità territoriale della Jugoslavia.
In seguito a trattative diplomatiche, la Jugoslavia, il 25 marzo 1941, completava il numero delle nazioni balcaniche aderenti al Patto Trpartito divenendo di fatto alleata dell’Asse. Nessuna richiesta ufficiale venne fatta dall’Asse alla Jugoslavia, ma delle conversazioni segrete la Jugoslavia doveva entrare in guerra contro la Grecia, in aiuto dell’Italia, ottenendo in compenso l’agognato sbocco al Mar Egeo con l’annessione del porto di Salonicco.Prontamente il governo inglese riusciva ad organizzare, il giorno dopo, un colpo di stato diretto dal capo dell’aviazione militare, generale Simovic. Il reggente Paolo veniva mandato in esilio,, il capo del governo arrestato, Pietro (il re fanciullo come definito da Londra) saliva al trono.Churchill il 27 marzo in un discorso proclamava: L’Impero Britannico ed i suoi alleati faranno causa comune con la nazione jugoslava. Noi continueremo a marciare e faremo in comune tutti gli sforzi fino al raggiungimento della vitoria.”
Fra UK e Jugoslavia si stringeva un patto politico e militare, il che equivaleva a dire che la Jugoslavia entrava ufficialmente in guerra contro le potenze dell’ “Asse”, mentre al contempo mobilitava l’esercito. Alla Jugoslavia gli inglesi offrirono subito un premio per la sua entrata in guerra al loro fianco, sarà l’Istria, Fiume e Zara.
Oltre ad aver infranto l’alleanza sottoscritta con l’Asse, ed ad essere di fatto e di diritto entrata in guerra contro Italia e Germania attraverso la sua alleanza politica e militare con il Regno Unito, la Jugoslavia aprì essa stessa le ostilità, attaccando per prima in direzione di Zara (città che apparteneva all’Italia dalla fine della prima guerra mondiale; i combattimenti iniziarono sin dal 28 marzo, il giorno dopo il colpo di stato di Belgrado, con l’attacco jugoslavo alle forze del generale Emilio Giglioli) e dell’Albania settentrionale, in cui stazionavano truppe italiane.
La guerra italo-jugoslava fu pertanto provocata dalla Jugoslavia, la quale:
-ruppe autonomamente il trattato di amicizia esistente con l’Italia, in seguito ad un colpo di stato orchestrato da Londra
-sottoscrisse un trattato di alleanza politica e militare con il Regno Unito, in guerra con Italia e Germania, e così facendo di fatto e di diritto dichiarando guerra a Roma e Berlino
-attaccò per prima, su Zara ed in Albania
Il conflitto italo-jugoslavo, con la sconfitta della Jugoslavia e l’invasione del suo territorio, fu soltanto la conseguenza dell’aggressione jugoslava all’Italia. Resta il fatto, innegabile, che fu la Jugoslavia a muovere guerra all’Italia (ed alla Germania), alleandosi con l’Inghilterra ed ottenendo in cambio della sua collaborazione la promessa di territori italiani.



2. L’ATTACCO DELLA GUERRIGLIA CONTRO IL REGIO ESERCITO ED I CRIMINI DI GUERRA DEI PARTIGIANI SLAVI

2.1 L’iniziale buona accoglienza delle truppe italiane e l’inizio della guerriglia ad opera dei comunisti
Come è noto, essendo entrata in guerra la Jugoslavia contro Italia e Germania, il conflitto si risolse nella rapidissima sconfitta dello stato slavo, dovuta a cause non solo militari ma anche politiche. Esso infatti era fondato interamente sul predominio dell’etnia serba su tutte le altre, tanto da avere ormai la denominazione ufficiale di “Regno dei Serbi”. Al momento dello scontro militare i soli Serbi si batterono effettivamente, mentre Sloveni e Croati disertarono in massa e non opposero alcuna resistenza agli Italo-Tedeschi.
Inizialmente, i rapporti fra governo italiano e Sloveni furono decisamente positivi, ed assolutamente non ostili. Mussolini decise di organizzare la Slovenia occidentale, sotto amministrazione italiana, in una provincia autonoma, unica in tutta Italia, unita sì al resto dello Stato, ma appunto provvista di ampia autonomia e forme di auto-governo.
Si manifestò da subito il fenomeno politico e culturale detto del “belogardismo”, con ciò intendendo l’alleanza filo-italiana degli Sloveni anti-comunisti, contraddistinta da una mentalità cattolica e conservatrice, sviluppati nella provincia autonoma di Lubiana fra il 1941 e il 1943 e tale da rappresentare per l’intero biennio della presenza italiana un fenomeno quantitativamente imponente.
Fra le personalità che aderirono al “belogardismo” si possono segnalare l’ex presidente del Consiglio della Slovenia, Marko Natlacen, assieme ad altri due ex ministri, il sindaco di Lubiana Ivo Adlesic, il rettore dell’università di Lubiana, Slavic, 105 sindaci Sloveni, ma il vero leader di questo movimento fu l’arcivescovo di Lubiana Gregorij Rozman, ancora oggi popolarissimo fra gli Sloveni.
Il conservatorismo ed il cattolicesimo, ambedue prevalenti nella cultura politica slovena di quegli anni, si univano all’ostilità verso i Serbi, che avevano imposto la loro egemonia nel regno di Jugoslavia, nell’ottenere al governo fascista italiano il consenso di buona parte della popolazione slovena.

2.2. L’inizio dell’attività partigiana in conseguenza dell’attacco tedesco all’URSS. I crimini di guerra dei partigiani
Ad una situazione quasi interamente tranquilla, nei territori italiani, seguì, dopo il 21 giugno del 1941, l’inizio dell’attività dei partigiani comunisti. Il movimento comunista internazionale era rimasto filo-nazista sin dal momento del patto Molotov-Ribbentrop, favorendo in ogni modo l’operato di Hitler, in seguito alle precise istruzioni di Stalin. Tutto questo cambiò repentinamente con l’inizio della guerra fra Germania ed URSS, cosicché anche in Slovenia e Dalmazia fece la sua comparsa la guerriglia comunista. Spiega infatti l’Oliva: “le truppe [italiane] si sono mosse per reazione ad attacchi subiti e questi, a loro volta, non sono stati determinati dalla durezza dell'occupazione, ma da fattori interni e internazionali indipendenti dal com­portamento del Regio esercito” [Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, p. 135] Come è stata la Jugoslavia ad attaccare l’Italia nel 1941, così in seguito sono stati i partigiani comunisti ad assalire per primi le truppe italiane in Slovenia e Dalmazia.
Inoltre, sin da subito i partigiani si resero responsabili di ripetute e gravi violazioni delle leggi di guerra. Giorgio Rochat, sicuramente il maggior storico militare italiano dopo Piero Pieri, ed il più competente per quanto concerne il secondo conflitto mondiale, si è soffermato anche sulla guerra balcanica dell’Italia nella sua monografia “Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta” (Torino 2005).
Anzitutto il Rochat delinea il contesto in cui operarono le truppe italiane, che è quello classico di un esercito regolare contrapposto a reparti irregolari:
“La prima cosa da rilevare è che tutti gli eserciti regolari hanno difficoltà a capire e affrontare una guerra partigiana. L'istituzio­ne militare si legittima come monopolio della violenza organizza­ta al servizio dello Stato, quindi ricerca la massima potenza di­struttiva consentita dallo sviluppo degli armamenti per un con­flitto programmato contro forze analoghe degli Stati nemici. I suoi codici di valore sono orientati a questo tipo di conflitto, definirlo «cavalleresco» sarebbe eccessivo, ma tutti gli eserciti regolari ac­cettano alcune regole di massima come il rispetto del nemico feri­to o che si dà prigioniero (non fosse che per ovvie esigenze di re­ciprocità) e dei civili, fino a quando restano civili, ossia non par­tecipano ai combattimenti. […] La cultura e l'addestramento di un esercito regolare vanno però in crisi quando si trova a occupare un paese ostile con una resi­stenza di popolo, dove ogni civile è un potenziale nemico, e deve fare fronte a una guerra partigiana condotta secondo regole tatti­che e codici di comportamento differenti da quelli «regolari». […] Quindi tende a ricorrere a solu­zioni brutali (fucilazioni, distruzioni di villaggi, deportazioni)” [Ibidem, p. 366]
In altri termini, il Rochat ricorda come il Regio Esercito si trovò a dover fronteggiare avversari i quali non rispettavano le leggi di guerra: uccisione sistematica dei prigionieri, sevizie, attacchi terroristici ecc.
Per dare un’idea del modo di condurre la guerra, bastino pochissime citazioni dall’Oliva, relative ad alcuni episodi bellici: “Decine e decine di mi­litari italiani furono ritrovati con le membra spezzate, evirati, con gli occhi enucleati […] Quando le nostre truppe poterono tornare sul luogo del­la lotta, poterono constatare che i feriti erano stati sevi­ziati: denudati tutti, alcuni evirati, conficcati i fasci del bavero negli occhi, infine tutti sgozzati […] 1 ribelli si accanirono sui feriti, ai più gravi aprirono il ventre estraendone le vi­scere, ai più leggeri spaccarono la testa a martellate e poi buttarono i cadaveri in un pozzo profondo venticinque metri.” [Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, ] Ancora, i cosiddetti “partigiani” secondo le leggi di guerra dell’epoca non potevano “ essere considerati legittimi belligeranti, ma franchi tiratori e come tali tratta­ti” Ciò avveniva per una serie precisa di ragioni: “1 ) non avevano possesso stabile di territorio, né erano insorti contro di noi al momento del­l'occupazione della Jugoslavia; 2) non facevano capo ad un governo responsabile né, per motto tempo, apparten­nero ad un'organizzazione unica; 3) erano sudditii di uno Stato che aveva concluso con noi un armistizio; 4) non portavano uniformi né, spesso, distintivo visibile a di­stanza; 5) non sempre portavano le armi apertamente; 6) non sempre rispettavano le leggi e gli usi di guerra; 7) per molto tempo non furono riconosciuti come legittimi belli­geranti neppure dalle Nazioni Unite, che tale qualifica ri­conoscevano invece ai cetnici”. [Note dello Stato Maggiore italiano, citate in Oliva, cit., p. 110]
Determinate forme di conduzione del conflitto compiute dai “partigiani”, quali gli attacchi a tradimento, gli attentati con bombe, le uccisioni di prigionieri, le torture inflitte loro ecc. erano, e sono ancora oggi, contrari alle leggi di guerra. I caratteri dell’attività di contro-guerriglia delle forze armate italiane furono quindi una reazione alle azioni criminali dei partigiani, compiute in violazione delle leggi di guerra.
Le operazioni anti-guerriglia italiane furono perciò conseguenza sia dell’attacco compiuto contro il Regio Esercito da parte dei partigiani comunisti e dovuto a fattori di ordine internazionali indipendenti dal suo operato, sia dei crimini di guerra dei partigiani.




3. L’OPERATO ANTI-GUERRIGLIA DELL’ESERCITO ITALIANO

1. Le istruzioni di Roatta. Classiche norme di anti-guerriglia, conformi alle leggi di guerra
Le istruzioni date da Roatta, comandante delle truppe italiane in Jugoslavia, erano semplici e banali norme anti-guerriglia. Citando sempre dal Rochat:
“La lunga circolare emanata il 1° marzo 1942 dal generale Roat­ta […] rappresenta un’articolata raccolta di istruzioni per 1’occupazione e la contro­guerriglia, nonché un forte appello a una maggiore combattività delle truppe; il documento piú ampio che conosciamo su questi problemi, che merita qualche attenzione” [Ibidem, p. 368]
Le istruzioni contenute sono definite dal Rochat quali “elementari”, essendo presenti nell’insegnamento di qualsiasi scuola di guerra:
“Dà per scontato un livello quanto mai basso di addestramento delle truppe e soprattut­to dei quadri (le indicazioni contenute sono elementari, materia di insegnamento in qualsiasi scuola per ufficiali) e cerca di porvi rime­dio con pagine e pagine di istruzioni.” [Ibidem, p. 368]
Le norme di Roatta prevedevano:
1) la fucilazione dei partigiani
2) l’utilizzo della rappresaglia su civili
3) la distruzione delle abitazioni di chi appoggiava i partigiani
4) internamento di coloro che appoggiavano i partigiani
5) si dovevano evitare di colpire chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e non bisognava fare ricorso a bombardamenti indiscriminati sui villaggi
Commenta il Rochat: “Sono le norme classiche dell’antiguerriglia, applicate in tutte le guerre contemporane, con ovvie varianti e qualche limitazio­ne rispetto ai secoli precedenti.” [Ibidem, p. 369]. Dello stesso parere è Gianni Oliva: “vi è stata una politica repressiva del Regio esercito, simile a quella che gli esercito occupanti di ogni nazione (comprese quelle più democratiche), attuano in un paese nemico […] dove si sviluppa una guerriglia variamente appoggiata dalla popolazione civile” [Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, p. 8]
Le istruzioni di Roatta prevedevano infatti quanto era contenuto nelle norme anti-guerriglia di tutti gli eserciti belligeranti dell’epoca, ivi compreso quello americano. Inoltre, esse risultavano pienamente conformi alle stesse leggi di guerra vigenti all’epoca, le quali consentivano la fucilazione dei combattenti irregolari, la rappresaglia e l’internamento dei civili rei di connubio con reparti irregolari.
Come appare inequivocabilmente, le direttive di questo generale non progettavano alcuno sterminio sistematico della popolazione civile, ma erano unicamente finalizzate alla repressione dell’attività partigiana. L’assenza di un piano di uccisione od anche solo cacciata degli abitanti in quanto tali si manifesta anche dalle direttive di risparmiare chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e di non servirsi di bombardamenti a tappeto sui villaggi.

2. Il giudizio di Rochat sul livello di durezza nelle operazioni di contro-guerriglia
Il Rochat non ha dubbi sul fatto che le truppe italiano agirono nel conflitto in maniera meno dura di tutti gli altri contendenti. Anzitutto, esse combatterono con scarsa determinazione:
“Tutte le indicazioni dicono che le truppe italiane affrontarono questa guerra con scarso entusiasmo e partecipazione, una testimo­nianza indiretta viene dalla necessità dei comandi di rinnovare ri­petutamente le direttive di massimo rigore” [Ibidem, p. 370]
Soprattutto, il Regio Esercito fu, tra tutti quelli impegnati nella guerra balcanica, certamente il meno feroce, tanto che le stessi eccessi furono opera di iniziative individuali o di singoli reparti, anziché la norma:
“Va co­munque ricordato che in una guerra con uno straordinario livello di atrocità e massacri da entrambe le parti, le truppe italiane fu­rono certamente le meno feroci'. Anche i piú duri ordini dei co­mandi ponevano limitazioni alle rappresaglie, come il rispetto di donne e bambini. E la repressione fu condotta con largo ricorso a fucilazioni e devastazioni, senza i massacri e le efferatezze com­piute dagli altri belligeranti, tedeschi compresi. Anche la nota fra­se della circolare di Roatta: «Si sappia bene che eccessi di reazio­ne, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti», va ri­condotta alla difesa di compagni aggrediti, non alle operazioni di controguerriglia, non può essere paragonata alle direttive hitleria­ne che avallavano a priori qualsiasi eccesso o massacro commesso dalle truppe naziste. Eccessi ci furono certamente, ma per inizia­tive individuali o di reparti minori, non come regola di condotta delle operazioni.” [Ibidem, pp. 370-371]
Lo stesso parere viene presentato da Gianni Oliva: “Sul piano militare, vi è certamente una sostanziale differenza fra la Werhmacht e il Regio esercito. Per gli strateghi tedeschi, il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione […] La violenza del Regio esercito, all’opposto, appare una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane […] Il raffronto con la brutalità tedesca è dunque improponibile, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo” [“Si ammazza troppo poco”, Milano 2006, p. 7] Infatti, l’Oliva stesso spiega come si fosse avuta una fuga di civili dalla Slovenia tedesca a quella italiana, proprio perché l’occupazione italiana era più mite di quella germanica [Ibidem, p. 124]
Oltretutto, se da una parte avvennero alcuni abusi ad opera di singoli o reparti minori fra le truppe combattenti (come accade praticamente in ogni conflitto), dall’altra le unità applicarono blandamente le istruzioni anti-guerriglia ricevute, rifiutandosi spesso di eseguire gli ordini.

3. La conduzione italiana dei campi
In quanto agli internamenti di popolazione civile, essi avevano l’esclusivo fine di condurre lontano dal teatro di guerra membri rei di favoreggiamento verso i “partigiani”, come si è spiegato sopra, e rientravano appieno nelle operazion di anti-guerriglia. Le istruzioni non prevedevano affatto l’uccisione di questi civili, e le morti che avvennero a causa di malnutrizione o malattia non furono dovute ad un piano preordinato, ma ad incuria ed incapacità amministrativa. Si tratta di un caso frequentissimo, anzi del tutto comune, nei campi di prigionia e di internamento di tutta la prima metà del Novecento.
Fra l’ampia documentazione disponibile, si può ricorrere ad esempio allo studio di James Bacque “Gli altri lager”, edito da Mursia: ad esempio, il tasso di mortalità dei campi di prigionia francesi per Tedeschi nella seconda guerra mondiale fu quasi del 40%, non in conseguenza di un piano deliberato di sterminio, ma per negligenza, incuria, scarsità di fondi ecc.
Per fare un solo confronto, il tasso di mortalità medio dei lager austriaci per Italiani nella prima guerra mondiale fu del 25%, mentre nel caso del campo italiano di Arbe, decisamente il più alto fra tutti i campi italiani per Slavi, esso si aggirò sull’8,8% (1700 perdite circa, su di una popolazione calcolata dal Centro Wiesenthal nell’ordine circa 15.000 unità). Insomma, il tasso di mortalità media dei lager austriaci per prigionieri Italiani nella prima guerra mondiale fu il triplo del tasso di mortalità massimo registrato nei campi italiani destinati a Sloveni nella II guerra mondiale.
La conduzione italiana dei campi fu anzi molto superiore per capacità a quella abituale del periodo, tanto che la maggioranza del totale dei decessi dovuti alle condizioni di vita nelle sedi di internamento si ritrova proprio ad Arbe (1700 su poco più di 2000): con poche eccezioni, in quasi tutti gli altri campi italiani destinati a Slavi non si ebbero vittime di malnutrizione o malattia al di fuori di quelle per cause naturali, un risultato eccezionale per il periodo, decisamente migliore a quello degli stessi campi di prigionia americani, non che di quelli tedeschi o sovietici.



4. LA DIFESA DELLE POPOLAZIONI CIVILI DALL’AZIONE DEI PARTIGIANI
L'esercito italiano in Jugoslavia, oltre alle operazioni belliche contro i guerriglieri locali, costituì un valido strumento di protezione delle popolazioni locali dalle violenze dei “partigiani” titini e degli ustascia Croati.
Per rimanere solo alla Slovenia, la schiacciante maggioranza degli abitanti non era affatto filo-comunista, e risultava anzi vittima dell'operato dei partigiani comunisti stessi, che massacravano gli avversari politici e depredavano le popolazioni, non diversamente da quanto accadeva in Italia ad opera dei loro “compagni” della “Resistenza”. Il Regio esercito rappresentò una difesa per i civili anche dinanzi ai partigiani titini, il cui operato fu oltremodo violento ed oppressivo: «A parte le spolia­zioni di viveri e di bestiame cui la popolazione civile fu soggetta, coloro che erano ritenuti favorevoli agli occupato­ri furono proditoriamente assassinati assieme alle loro fa­miglie, interi villaggi furono saccheggiati e incendiati, fab­briche, miniere, segherie, macchine agricole, scuole, chiese furono incendiate o distrutte, uomini furono costretti ad ar­ruolarsi nelle bande, giovani donne furono rapite». (Note dello Stato Maggiore italiano, citate in Oliva, cit., p. 145). L’attività italiana di difesa delle popolazioni civili dalle violenze ed eccedi dei cosiddetti “partigiani” trovò l’alleanza di numerosi Slavi i quali preferirono combattere assieme agli Italiani anziché contro, arruolandosi nelle “MVAC”, “Milizie Volontarie Anti-Comuniste”.
Nella Dalmazia poi vigeva uno stato di "bellum omnium contra omnes" (ustascia, cetnici, comunisti), in cui ci si massacrava a vicenda: la presenza militare italiana sovente protesse le popolazioni civili, facile bersaglio delle ostilità dei "guerriglieri". I Tedeschi accusavano gli alleati italiani di «evidenti e continue pro­ve di simpatia» nei confronti dei serbi e degli ebrei che ve­nivano protetti dalle persecuzioni degli ustascia e aiutati a trasferirsi coi loro beni nella zona italiana.
E’ importante al riguardo il lavoro dell'ebreo dàlmata Menachem Shelah: "Un debito di gratitudine Storia dei rapporti tra E.I. e gli ebrei in Dalmazia (1941 - 1943)". Il Menachem, originario della Dalmazia ed in seguito divenuto professore di storia contemporanea all’università di Gerusalemme, spiega come il Regio Esercito salvò una moltitudine di ebrei dàlmati (oltre 10.000), che altrimenti sarebbero stati massacrati dagli ustascia. Non soltanto gli Ebrei furono salvati dal Regio Esercito, ma anche un gran numero di Serbi, scampati alle stragi degli ustascia grazie alla protezione offerta dall’esercito italiano.
La difesa delle popolazioni civili compiuta dall’esercito italiano contro le violenze dei comunisti e degli ustascia costituisce un fatto ben noto. Si può citare ad esempio ancora dall’Oliva: «le truppe italiane intervennero per sedare i dissidi fra le fazioni locali in lotta e per porre un ostacolo alle violenze degli ustascia regolari e irregola­ri che infierivano contro le popolazioni serbo-ortodosse e gli ebrei» […] In Croazia, partico­larmente, l'azione delle nostre autorità diretta a frenare le violenze degli ustascia, mentre destava un sentimento di gratitudine da parte della popolazione serba, inaspriva l'elemento croato e lo stesso governo, influenzato anche dai tedeschi, i quali vedevano di malocchio la protezione accordata dall'Italia alla popolazione serba e ai cetnici” (Note dello Stato Maggiore italiano, citate in Oliva, cit., pp. 110-111).



5. IL GIUDIZIO DEGLI SLOVENI SULL’OCCUPAZIONE ITALIANA. DUE VISIONI OPPOSTE
Qual è il giudizio degli Sloveni sull’occupazione italiana? Esso è ambivalente e rescisso in due visioni opposte fra loro. La memoria storica a più di 60 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale continua a dividere ancora la nazione slovena, così come altre, inclusa quella italiana.
La Slovenia è nata come stato indipendente nel 1991, separandosi dalla Jugoslavia, anche attraverso una profonda rivalutazione delle proprie memorie storiche. La concezione del proprio passato proposta per 45 anni dallo stato totalitario comunista fondato da Tito era inapplicabile alla nuova repubblica slovena, sia per le diversità nei principi costituzionali, sia per il proprio proporsi quale stato autonomo degli Sloveni, anziché degli Jugo-Slavi, i cosiddetti “Slavi del sud”.
Tale revisione storica ha inevitabilmente coinvolto la seconda guerra mondiale e la guerra civile che ha diviso gli Sloveni fra loro, tra sostenitori dell’URSS da una parte, alleati dell’Asse dall’altra.
In Slovenia si scontrano ancora oggi due memorie storiche opposte. La prima, rappresentata dalla sinistra nostalgica di Tito, interpreta quanto è avvenuto in Slovenia nel periodo 1941- 1945 quale una cosiddetta “guerra di liberazione” dagli occupanti stranieri ed assieme di resistenza contro il “collaborazionismo” della “Bela Garda” (la “Guardia Bianca” slovena) e dei domobranci, appoggiato dalla Chiesa slovena ed alleato degli Italo-Tedeschi.
L’altra memoria storica invece considera gli avvenimenti bellici come una guerra civile tra sloveni in cui la responsabilità maggiore va attribuita al comunismo e alla sua rivoluzione. La Chiesa e coloro che si opponevano al comunismo sovietico sarebbero quindi stati dalla parte giusta nel loro allearsi con Italiano e Tedeschi. Mentre i nostalgici di Tito si soffermano sull’operato compiuto dai Tedeschi, Italiani e dagli Sloveni loro nemici, i sostenitori dei belagardisti ricordano le stragi perpetrate dai partigiani, durante il conflitto e soprattutto dopo. secondo l’attuale centro-destra sloveno andrebbero pienamente rivalutati e riabilitati tutti i combattenti anti-comunisti ed anti-partigiani, alleati dell’Asse (così come, mutatis mutandis, in Italia i soldati della RSI era alleati dei Tedeschi) a cui dovrebbero essere riconosciuti tutti i diritti ed i riconoscimenti attribuiti in passato ai titini. Una legge varata da alcuni anni dal governo sloveno risulta espressione di tale tesi, riconoscendo lo status di combattenti per la patria slovena ai “domobranci” e “belagardisti”, alleati di Tedeschi ed Italiani: è come se in Italia i soldati della RSI avessero ottenuto lo stesso riconoscimento ufficiale dei partigiani.
Personaggio particolarmente caro ai “revisionisti” sloveni è il vescovo di Lubiana Rozman, alto sostenitore politico della “Guardia Bianca” slovena, favorevole alla presenza italo-tedesca e di fatto fondatore delle vasˇke straze (le guardie di villaggio), le unità militari filo-fasciste da cui scaturì la “Bela Garda”. Questo prelato fu condannato per “collaborazionismo” da un tribunale titino, ma ora i partiti di destra e la stessa Chiesa slovena hanno richiesto, ed infine ottenuto, che fosse ufficialmente riabilitato, attraverso una revisione del processo.
Il giudizio di larga parte della popolazione slovena nei confronti della guerra del 1941-1945 è quindi favorevole ai belagardisti ed ai domobranci, alleati degli Italo-Tedeschi, anziché ai titini.
Lo stesso atteggiamento delle autorità pubbliche, dopo la fine della dittatura comunista della Jugoslavia e l’indipendenza della Slovenia, è ben diverso dal passato riguardo a ciò che durante il dominio comunista erano definiti rispettivamente quali “collaborazionismo “ e “guerra di liberazione”.
Anche nel settore degli storici sloveni, non più sottoposti all’autorità del regime comunista, si è avuta una profonda revisione della storia trascorsa. E’ pioneristico al riguardo il lavoro di Bogdan Novak, Trieste, 1941-1954. The ethnic, political and ideological struggle, Chicago-Londra, 1970, tradotto in italiano col titolo Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano, Mursia, 1973.Bogdan Novak è uno Sloveno esule negli USA, la cui opera suddetta, pubblicata nel 1970, ha anche il merito indubbio di precorrere di almeno 20 anni la tendenza dell’attuale storiografia slovena a riconsiderare le modalità e la natura del regime di Tito.La nuova disponibilità degli archivi, permessa dall'instaurazione in Slovenia di un regime democratico dopo la proclamazione dell'indipendenza, e la possibilità stessa di una “revisione” storica, concessa dalla fine del sistema autoritario comunista, hanno condotto numerosi storici Sloveni a concordare ampiamente, sulla base della documentazione e delle testimonianze in lingua slovena, con molte valutazioni cui gli storici italiani erano pervenuti in precedenza, sulla base delle proprie fonti. Per un rapidissima sintesi sul “revisionismo storico” sloveno, cfr. Tone Ferenc, La storiografia sulla seconda guerra mondiale in Slovenia dopo il rivolgimento politico del 1990, pp. 139-144; Milita Kacin, Appunti sull'attuale storiografia slovena, entrambi in "Storia contemporanea in Friuli", a. XXII, n. 23, 1992, pp. 147-157
Si può quindi rimarcare come sia nella coscienza della maggioranza dell'attuale popolazione slovena, sia degli storici sloveni stessi, il giudizio verso l'esercito italiano ed i suoi alleati locali sia tutt'altro che negativo. Tale atteggiamento di condanna si ritrova invece presso i nostalgici del comunismo.


6. BIBLIOGRAFIA
Si riporta qui un’elementare e ridottissima bibliografia, a cui naturalmente devono essere aggiunti l’Oliva ed il Rochat, precedentemente citati..
Sono utili per affrontare la tematica dei conflitti nell’area jugoslava in una prospettiva di ampio respiro le seguenti opere:
Katrin Boeck, “Von den Balkankrieg zum Ersten Weltkrieg. Kleinstantenpolitik und ethnische Selbstbestimmung auf dem Balkan”, München 1996
Béla Kiràly-Dimitrije Djordjevic, “East Central European Society and the Balkan Wars”, New York 1987
Sulle origini della guerra di Jugoslavia, cfr. anche il classico di Andreas Hillgruber, “La strategia militare di Hitler”, prefazione di R. de Felice, Milano 1986, pp. 513-521, 542-543
In modo specifico sulla seconda guerra mondiale e l’invasione nazista:
Dietrich Orlow, “The Nazis in the Balkans. A Case Study of Totalitarian Politics”, Pittsburgh 1968
Martin Seckendorf, “Die Okkupationspolitik des deutschen Faschismus in Jugoslawien, Griechenland, Albanien, Italien und Ungarn (1941-1945), Berlin-Heidelberg 1992
Riguardo alle perdite in vite umane dovute alla guerra, assieme interna ed esterna, avvenuta in Jugoslavia nel 1941-1945 (escludendo quindi ciò che i titini fecero dopo il conflitto, con le “pulizie etniche” in Carinzia, Vojvodina, Dobruja e Venezia Giulia, nonché i gulag e gli enormi massacri che coinvolsero ex combattenti nazionalisti, “borghesi”, ecclesiastici ecc., di cui si è parlato in precedenza), non esiste una cifra precisa, anche se essa viene valutata abitualmente al di sopra del milione di morti.
Dusan Breznik aveva proposto 1.100.000 vittime.
Paul Mayers e Arthur Campbell in "The population of Yugoslavia” (Washington 1954) parlano di 1.067.000 vittime
Bogoljub Kočević invece suggerisce 1.014.000 caduti
L’opera di Vladimir Zerjavic “Jugoslavija-manipulacije zrtvama drugog svjetskog rata” (Zagabria 1989) calcola un totale di 1.027.000 morti Jugoslavi.
La cifra di oltre un milione di morti, assai elevata in proporzione alla popolazione jugoslava, ed ulteriormente accresciuta dalle stragi titine posteriori al conflitto (non calcolate dallo Zerjavic), fu dovuta principalmente alla guerra civile fra i vari popoli di Slavi del sud. Secondo la commissione del Senato americano sui crimini di guerra nella Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, i soli Serbi uccisi dai Croati oscillerebbero in una cifra compresa fra 300.000 e 500.000 (con ogni probabilità più vicina alla prima possibilità che alla seconda).
Per fare un confronto, la stessa commissione senatoriale indica in 8.111 i morti Jugoslavi dovuti ad azioni belliche degli Italiani. Secondo lo Zerjavic, il numero di Jugoslavi morti per mano degli Italiani sarebbe invece di circa 15.000, pertanto l’1,5% del totale.



7. CONCLUSIONE

1) L’Italia non aggredì la Jugoslavia, ma al contrario ne fu aggredita, essendo stato il regime golpista di Belgrado ad aver sottoscritto un’allenza formale politica e militare con il Regno Unito, ponendosi de iure et de facto in guerra con gli stati italiano e tedesco. L’occupazione italiana di parte dei territori jugoslavi ed il successivo conflitto sono quindi effetti dell’aggressione jugoslava all’Italia.
2) Inoltre, inizialmente i rapporti fra Sloveni ed Italiani furono distesi. L’origine degli scontri derivò dallo scatenarsi della guerriglia comunista, indipendente dall’operato delle autorità italiane e dovuta alla guerra fra Germania ed URSS. Ancora, le stesse operazioni repressive dell’esercito italiano furono una diretta conseguenza dell’operato criminale (in quanto segnato da violazioni gravi e reiterate delle leggi di guerra) dei titini. Le azioni anti-guerriglia italiane avvennero in seguito ed in reazione ai crimini di guerra dei “partigiani”.
3) Inoltre, l’occupazione militare italiana di parte della Jugoslavia consistè di normali operazioni anti-guerriglia, condotte secondo criteri classici. Esse furono di minore ferocia di quelle condotte dagli altri contendenti nel conflitto balcanico, e cercarono di risparmiare la popolazione civile. La stessa conduzione italiana dei campi fu più che buona in rapporto al periodo, e superiore a quella degli stessi campi americani di prigionia.
Alcuni eccessi furono opera di singoli o di piccoli reparti, il che avviene in ogni guerra: tuttavia, le istruzioni di Roatta e l’operato della grande maggioranza delle unità furono conformi alle leggi di guerra allora in vigore.
4) L’esercito italiano rappresentò inoltre una valida protezione per la popolazione civile contro le stragi e le violenze perpetrate dai “partigiani” titini e dagli ustascia croati, incomparabilmente superiori a quelle del Regio Esercito.
5) La maggioranza della popolazione slovena oggigiorno è anti-titina ed anzi propensa ad un giudizio positivo verso coloro che un tempo erano definiti quali “collaborazionisti”, alleati dei Tedeschi e degli Italiani. Le stragi e violenze dei “titini” compiute contro gli Sloveni surclassano quelle delle forze dell’Asse e dei loro alleati locali.








[1] Una valutazione obiettiva e veritiera della natura dell’impero asburgico, fondato sul principio dell’egemonia dell’elemento etnico austriaco, può essere introdotta ricordando la verbalizzazione della decisione imperiale espressa nel Consiglio dei ministri il 12 novembre 1866, tenutosi sotto le presidenza dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Il verbale della riunione recita testualmente: “Sua maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno” [cfr. Luciano Monzali, "Italiani di Dalmazia", Firenze 2004, p. 69; Angelo Filipuzzi (a cura di), “La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri”, Padova 1966, pp. 396]. La decisione governativa, presa al più livello dall’imperatore Francesco Giuseppe e dal suo consiglio, di procedere alla germanizzazione e slavizzazione delle regioni a popolamento italiano, Alto Adige, Venezia Giulia e Dalmazia, “con energia e senza riguardo alcuna”, attesta in maniera inequivocabile la natura discriminatoria ed oppressiva dell’impero asburgico nei confronti della minoranza italiana: si ricordi comunque come questo sia solo un esempio fra i molti della politica anti-italiana dell’Austria. Alla politica di snazionalizzazione, cacciata e vero e propria pulizia perseguito dagli Asburgo a danno degli Italiani (fra gli esempi, molti, andrebbe ricordato il quasi totale sterminio dei ladini nelle terre invase dai cosiddetti “sud-tirolesi”: i ladini, stirpe neo-latina ivi abitante sin dalla più remota antichità e latinizzatosi durante il periodo romano, furono quasi annientati dall’invasione austriaca, tanto che oggigiorno ne sopravvive solo un’esigua minoranza in terre in passato da loro interamente popolate), corrispose poi quella della Jugoslavia monarchica prima, di Tito poi.
[2] Ciò avvenne con i cosiddetti “decreti Hohenhole”, dal nome del governatore austriaco della Venezia Giulia, principe di Hohenhole, che li emanò.
[3] Famigerato in particolare quello di Katzenau, dove a centinaia perirono di fame, malattie, stenti, gli Italiani ivi imprigionati.
[4] Documentate da Attilio Tamaro in “Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia” e Giuseppe Praga in “Storia della Dalmazia”

domenica 5 luglio 2009

Dimenticati



Con Nuto Revelli riscopriamo l'Italia della Guerra e dei non protagonisti

di
Luca Meneghel5 Luglio 2009
Gli Alpini sul fronte russo
Storico, memorialista, narratore. Ma anche, per dirla con parole sue, semplice “autodidatta”. Questo e molto altro è stato Nuto Revelli, lo scrittore piemontese che ha dedicato gran parte della vita all'incontro con gli “ultimi”. Per riscoprire un autore tanto eclettico, “l’Occidentale” ha intervistato Luisa Passerini, docente di Storia culturale all’Università di Torino, che ha conosciuto e frequentato personalmente quell’uomo “insieme brusco e profondamente mite”. Con lei ripercorriamo le tappe di una straordinaria avventura intellettuale, tra soldati al fronte e poveri contadini al cospetto della modernità.
Professoressa, come si è avvicinata a Nuto Revelli?
Mi avvicinai a Nuto Revelli - che già conoscevo alla lontana per altri suoi scritti e gesti - leggendo Il mondo dei vinti, la cui uscita, nel 1977, si situava in un momento del mio sviluppo intellettuale e professionale che andava in una direzione affine. Nella seconda metà degli anni Settanta, mi ero infatti appassionata alla storia orale, nella sua pratica e nei suoi aspetti teorici. Date le premesse da cui partivo, per me non fu facile venire a patti - se così posso dire - con l’opera di Revelli, che sovranamente valicava tutte le pastoie metodologiche e disciplinari. Io ero intenta a operare una sfida rispetto alla storiografia tradizionale, alla quale però rivendicavo il diritto di appartenenza sia della storia orale sia mia personale.
Lui, invece, era più lontano dalla storiografia tradizionale…
Ci volle del tempo e dell’esperienza perché potessi apprezzare il contributo di Revelli, così libero da condizionamenti, anche quelli che, come nel mio caso, permettevano - se adeguatamente sfidati - di raggiungere nuove frontiere, allargando i territori disciplinari esistenti. Revelli non aveva bisogno di dimostrare niente e non si lasciava irreggimentare da nessuno steccato; era scettico, e giustamente, anche verso la possibilità di essere classificato come storico orale, nonostante i suoi grandi contributi alla raccolta e all’elaborazione dell’oralità.
Lei ha conosciuto personalmente Revelli. Cosa ricorda del vostri incontri?
Ebbi la fortuna di conoscere Nuto Revelli di persona, in occasione di una serie di incontri che organizzammo, con altri amici e colleghi, all’Università e all’Istituto Gramsci di Torino, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Il contatto diretto con il suo modo di fare, che era insieme brusco e profondamente mite, mi fece comprendere molto dello spirito in cui si muoveva la sua opera. Lo rividi più volte, andando a trovarlo nella sua casa di Cuneo, intervistandolo, incontrandolo al Castello di Verduno dove passava le vacanze, e fui sempre colpita dalla mescolanza di estrema umanità - che lo rendeva così fine e simpatico - e di spregiudicatezza e di intransigenza, che caratterizzavano sia l’uomo sia l’intellettuale. Alcune opere successive, come Il disperso di Marburg e Il prete giusto confermarono queste impressioni.
Dalla Campagna di Russia alla lotta partigiana. Cosa ha rappresentato per lui la guerra?
Un aspetto fondamentale dell’atteggiamento di Nuto Revelli rispetto alla guerra, compresa quella partigiana, mi è rimasto profondamente impresso e ha ispirato la mia comprensione dell’atteggiamento che potremmo avere tutti, se ne fossimo capaci. E’ basato sulla convinzione che la violenza armata e organizzata si debba affrontare e anche praticare, quando è assolutamente necessario, compresi passi estremi come l’esecuzione di un nemico o di un traditore. Tuttavia queste decisioni devono costantemente poter contenere in se stesse il loro contrario, cioè non dare mai spazio al compiacimento per la violenza, ma anzi albergare sempre la consapevolezza del costo che comporta il metterla in atto. Si percepiva che questa consapevolezza aveva animato le azioni e i pensieri di Nuto Revelli, compreso il suo lavoro intellettuale.
Cosa lega il Revelli memorialista a quello narratore? Quale delle due forme di scrittura è più convincente?
Non credo si debba fare alcuna separazione tra le due forme di scrittura, e tanto meno ritengo che una sia più convincente dell’altra. Al contrario, stanno in rapporto di reciproca suggestione e si illuminano vicendevolmente. L’ispirazione di Revelli è sempre storica, sempre alla ricerca del senso di qualcosa che è accaduto, anche là dove resta misterioso, e nello stesso tempo la sua storicità è intessuta della capacità di narrare, che spazia dal registro orale a quello scritto.
L’altro grande tema di Revelli è quello del mondo contadino, alle prese con l’avvento dell’industrializzazione e della società di massa. Cosa l’ha spinto verso queste realtà?
Come egli stesso ebbe a dichiarare, Revelli considerò di aver terminato, con Mai tardi e La guerra dei poveri, il proprio discorso autobiografico, e di poter passare a raccogliere documenti sull’esperienza di coloro che avevano vissuto le stesse vicende in altro modo e con altro linguaggio, essendo contadini e operai, o soldati semplici invece che ufficiali. La spinta verso il passaggio da sé agli altri era già presente in precedenza, ma l’impulso, come Revelli raccontò in un’intervista, era stato rimandato per portare a termine il lavoro autobiografico.
Insomma, dopo aver parlato della propria esperienza l’autore ha sentito il bisogno di dare la voce agli “ultimi”…
Il passaggio da sé agli altri diventò una risposta al bisogno di far parlare quelli che altrimenti non avrebbero mai parlato. Nacque così una straordinaria combinazione di oralità e scrittura, che mostra una sostanziale continuità di ispirazione con le opere precedenti, ma anche una grande capacità di attenzione non solo verso gli aspetti arcaici, ma anche verso le forme di modernità presenti nel mondo contadino. Era il suo modo di renderlo attuale, di inserire quel mondo nella sfera pubblica contemporanea e denunciare l’ingiustizia del contesto complessivo.
Professoressa, lei è molto attenta allo studio delle fonti orali. Ci può raccontare come ha lavorato Revelli per costruire i due libri sul mondo contadino?
Ricordo bene l’incontro in cui Revelli stesso espose i suoi criteri per passare dalla testimonianza alla scrittura per quanto riguardava quei due libri. Il presupposto era un’intervista condotta con tutto il rispetto delle forme di relazione tra le persone, anche nella ritualità, che tuttavia lasciava lo spazio necessario a uno scambio sincero e talvolta confidenziale, anche con le donne. Non sempre Revelli usò il registratore, ma ammise francamente di aver sbagliato e lo riconobbe come strumento prezioso. Quello che accadeva dopo aver ottenuto la testimonianza era un lungo lavoro di limatura e traduzione. Faceva sempre molta attenzione, ci disse, a non tagliare pezzi che fossero essenziali per l’interezza della persona, come se si fosse trattato di tagliare un braccio o una gamba.
Un lavoro molto delicato…
Era un lavoro lunghissimo, con ripensamenti, tentativi, correzioni, che infine approdava a un risultato contemporaneamente molto fedele e molto innovativo, che produceva un terzo registro rispetto all’oralità e alla scrittura, caratterizzato tra l’altro dalla presenza costante del dialogo e dalla molteplicità linguistica. In particolare L’anello forte apre nuove prospettive per una comprensione della narratività differenziata sulla base del genere e della generazione, dato che in esso sono presenti testimonianze di donne di età diversissima e di svariate origini geografico-culturali. Nel complesso, entrambi i testi mostrano all’opera un’attiva intersoggettività tra l’autore e i suoi testimoni.
Un’ultima domanda. Revelli ha affermato che per i giovani d’oggi è impensabile svolgere ricerche come quelle da lui compiute in Piemonte e Calabria: servono tempo, pazienza e sicurezza economica. È d’accordo con lui? Ci sono state altre ricerche di questo tipo?
Non credo ci siano ricerche davvero paragonabili alla sua nell’ampiezza e nella qualità, ma credo ci siano molte ricerche che riprendono quello spirito e seguono almeno per un tratto l’esempio dato da Revelli, a loro volta proponendo una propria ispirazione e una specifica intersoggettività. Mi basti citare le tesi di laurea, condotte con passione e partecipazione, che documentano con ricchezza e precisione la vita di villaggi, gruppi sociali, individui, e costituiscono contributi preziosi, anche se restano poco conosciuti, a un filone di ricerca come quello della storia orale.