domenica 16 agosto 2009

Il terrorismo slavo in Venezia Giulia

IL TERRORISMO SLAVO IN VENEZIA GIULIA
Come attesta, fra gli altri, Almerigo Apollonio nel studio “La Venezia Giulia dagli Asburgo a Mussolini”, se l’unione con l’Italia fu accolta con grande favore dagli Italiani, maggioranza assoluta nella regione, presso la minoranza slava non si ebbe inizialmente né adesione, né ostilità, ma piuttosto uno stato di attesa, comunque non mosso da animosità contro il nuovo governo. Anzi, l’attività di soccorso delle popolazioni stremate dalla guerra e dalla fama, da parte dell’esercito italiano fu altamente apprezzato anche da Sloveni e Croati.
La situazione cambiò ben presto non è per l’operato italiano, bensì per quello jugoslavo (l’Apollonio su questo punto è chiarissimo). Il governo jugoslavo costituì delle organizzazioni segrete, aventi basi sul proprio suolo, ma ramificate anche inVenezia Giulia, dedite all’agitazione ed alla propaganda contro l’Italia e gli Italiani. La loro attività fece sì che buona parte della popolazione slava, in precedenza non ostile, lo divenisse invece nei confronti del nuovo stato di cui faceva parte. Infatti, sin dall’immediato dopoguerra, il governo jugoslavo sostenne l’azione di terroristi slavi dediti all’assassinio in territorio giulio-veneto.


Una breve valutazione dell’entità del terrorismo slavo in Venezia Giulia può essere dato dal seguente elenco, largamente incompleto, delle loro operazioni:Nel periodo 1920-1922 si hanno le seguenti azioni omicide ad opera dei terroristi slavi:-assassini del maresciallo della Guardia di Finanza, Postiglione, della guardia regia Giuffrida, del finanziere Plutino, del carabiniere Cecchin, della guardia regia Poldu, del tenente Spanò e del sergente Sessa, avvenuti a Trieste-assassinio del finanziere Stanganelli avvenuto a Postumiaassassinio del brigadiere dei Carabinieri Ferrara avvenuto a Pola -assassinio del soldato Palmerindo avvenuto a CarnizzaA partire dal 1924, risoltosi formalmente il contenzioso italo-jugoslavo, lo stato jugoslavo pratica una politica di doppiezza, formalmente ed ufficialmente riconoscendo il confine pattuito, di nascosto appoggiando e finanziando altri gruppi terroristici. I quali sono responsabili delle seguenti azioni:-attacco militare ai posti della Guardia di Finanza di Coterdasnizza e di Molini.-assalto compiuto da una banda di una ventina di armati, provenienti da oltre confine, attaccarono il corpo di guardia del valico confinario di Unez, uccidendone il comandante, il sottobrigadiere Lorenzo Greco.-Nell'aprile del 1926 fu attaccata a scopo di rapina la stazione ferroviaria di Prestrane, con uccisioni del ferroviere Ugo Dal Fiume e la guardia di finanza Domenico Tempesta.-Nel mese di luglio 1926 fu appiccato il fuoco ad un bosco del comune di Trieste-nel novembre 1926 avvenne un attentato dinamitardo alla caserma di San Pietro del Carso, con la morte di Antonio Chersevan, mentre rimasero gravemente feriti Francesco Caucich ed Emilio Crali.-Nella notte del 10 febbraio 1927, nelle vicinanze del castello di Raunach vi fu un'imboscata ad una pattuglia militare, con sparatoria in cui rimasero feriti Andrea Sluga e Francesco Rovina.-Nel maggio 1927 fu tesa, sulla strada tra Postumia e San Pietro del Carso, un'altra imboscata ad una di queste pattuglie, ed in essa rimase ferito il soldanto Cicimbri -il 29 dicembre del 1927 di quell'anno fu incendiato il Ricreatorio di Prosecco.-Nell'aprile del 1928, ancora a Prosecco, fu incendiata la scuola elementare, -nel maggio dello stesso anno fu incendiata quella di Cattinara e fu tentato l'incendio dell'asilo infantile dell'Opera Nazionale Italia Redenta di Tolmino.-Il 3 agosto 1928 ebbe luogo l’assassinio a tradimento della guardia municipale di San Canziano, Giuseppe Cerquenik.-nello stesso mese fu incendiato il ricreatorio della Lega Nazionale di Prosecco, -ai primi di settembre del 1928 fu incendiata la scuola di Storie-il 22 settembre 1928, a Gorizia, furono uccisi lo studente Coghelli ed il soldato Ventin che aveva cercato di fermare l'assassino del Coghelli.-Nel gennaio 1929 si ebbe la devastazione dell'asilo infantile di Fontana del Conte, -nel marzo 1929 ci fu l'assassinio, a Vermo, di Francesco Tuchtan. -Nel giugno 1929, si ebbe l'incendio della scuola di Smogliani, --nel luglio 1929 fu fatta saltare in aria la polveriera di Prosecco -nel novembre 1929 avvenne la rapina all'ufficio postale di Ranziano -nel dicembre 1929 si ebbero i tentati omicidi dell'agente Curet a S. Dorligo della Valle e della guardia Francesco Fonda.-nel gennaio 1930 vi fu l'attentato al Faro della Vittoria a Trieste, -in febbraio fu incendiato l'asilo infantile di Corgnale -sempre a febbraio fu assassinato a Cruscevie il messo comunale Goffredo Blasina.-Il 10 febbraio ci fu l'attentato dinamitardo al Popolo di Trieste, in cui morì lo stenografo Guido Neri, mentre rimasero gravemente feriti i correttori di bozze Dante Apollonio, Giuseppe Missori ed il fattorino Marcelle Bolle.-Nel maggio del 1930 furono assassinati a San Dorligo della Valle i coniugi Marangoni-nei primi giorni del settembre 1920, in uno scontro a fuoco con dei terroristi sloveni che cercavano d'introdursi in regione, fu uccisa la guardia alla frontiera Romano Moise e il suo commilitone, Giuseppe Caminada, fu gravemente ferito.Si noti come questo elenco sia approssimato per difetto, sebbene presenti un bilancio impressionante per numero di azioni terroristiche e loro gravità. Ciò che rende particolarmente gravi le azioni suddette è il fatto che esse non furono opera di gruppo clandestini indipendenti, bensì di organizzazioni terroristiche create, controllate ed organizzate dallo stato jugoslavo stesso. Lo stato jugo-slavo perseguiva una politica di doppiezza, da una parte riconoscendo ufficialmente la frontiera ottenuta dall’Italia, dall’altra costituendo dei nuclei armati terroristici, che avevano le loro sedi in territorio jugo-slavo ed erano organizzate, addestrate, armate, guidate dall’esercito jugo-slavo. L’impiego di simili strumenti non erano nuovo allo stato jugo-slavo, il quale ereditava una tradizione già propria di quello serbo, che si era servito anch’esso di organizzazioni terroristiche (“Mano Nera” e “Mano Bianca”) per combattere la presenza asburgica in Bosnia-Erzegovina.Le associazioni terroristiche jugo-slave, che prendevano il nome di “Tigr” e “Barba”, malgrado avessero il loro impianto strutturale in Jugo-slavia e fossero costituite per lo più da jugo-slavi, pure avevano naturalmente anche ramificazioni in Venezia Giulia, ed ivi svolgevano con l’appoggio dei loro sodali anche un’intensa propaganda anti-italiana, affiancata agli atti terroristici. Il terrorismo jugo-slavo in Venezia Giulia, oltre alla sua intrinseca gravità, consente di meglio comprendere ciò che realmente accadde in quella che i nazionalisti slavi presentano come “persecuzione fascista”.L’incendio dell’hotel Balkan, presentato da alcuni come il massimo atto di violenza fascista contro gli Slavi in Venezia Giulia, ebbe invece come responsabili i terroristi jugo-slavi. Il 13 luglio del 1920, in seguito alle violenze anti-italiane degli Jugo-slavi in Dalmazia, i fascisti organizzarono un comizio a Trieste. Un Italiano, Giovanni Nini, che aveva preso parte alla manifestazione ed aveva gridato frasi che sostenevano l’italianità della Dalmazia, fu accoltellato a morte da ignoti, con ogni verosimiglianza Slavi, date le circostanze. Un gruppo di fascisti si diresse allora verso il Narodni Dom, ma lo trovò circondato da oltre 400 militari Italiani, armati e schierati, e fu costretto ad arrestarsi. Però, dalle finestre del Narodni Dom piovvero addosso ai militari Italiani bombe a mano e partirono fucilate. I militari, vistosi aggrediti, si difesero aprendo il fuoco contro l’edificio. L’incendio scoppiò in seguito all’esplosione di munizioni ed esplosivi ivi contenuti, essendo il Narodni Dom sede di una organizzazione militare clandestina organizzata dallo stato jugoslavo per compiere attentati, violenze ed attività propagandistica in Venezia Giulia. Furono proprio i successivi scoppi delle armi contenute, del tutto illegalmente, nel Narodni Dom ad impedire ai vigili del fuoco ivi accorsi di spegnere l’incendio. Questa è la vera vicenda di ciò che viene presentato dai nazionalisti Sloveni stessi quale l’apice e la massima espressione dell’ “oppressione fascista” degli Slavi residenti in territorio italiano. Non si trattò di una “aggressione fascista” contro un “centro culturale”, bensì di un conflitto a fuoco fra un reparto dell’esercito regolare italiano ed un gruppo di terroristi jugo-slavi annidati all’interno dell’edificio, che avevano scagliato bombe a mano ed esploso colpi contro i militari. E’ da rimarcare come l’incendio del “Narodni Dom”, giudicato quale l’apice delle “violenze fasciste”, sia stato in realtà l’esito di uno scontro fra militari italiani, aggrediti, e terroristi jugo-slavi, aggressori.

Violenze fasciste certamente vi furono in Venezia Giulia, come in tutto il resto d’Italia, però posteriori alla violenze anti-italiane in Dalmazia ed in Venezia Giulia nel 1918-1920, per non parlare di quelle del periodo asburgico, cosicché viene a cadere la teoria cara alla sinistra comunista secondo cui le foibe e l’esodo sarebbero state una reazione alle “violenze fasciste” stesse. La verità è quella opposta: gli atti di violenza del fascismo in Venezia Giulia (neppure lontanamente paragonabili comunque all’operato dei titini) furono in risposta alle violenze terroristiche organizzate e dirette dallo stato jugoslavo. Inoltre, non si giunse mai alla costituzione di reparti para-militari, organizzati, armati ed addestrati dall’esercito, diretti ad essere impiegati sul territorio nazionale jugoslavo per compiere atti di terrorismo, quel che invece fece la Jugoslavia. Lo stato jugoslavo fu quello che, con una terminologia contemporanea, sarebbe definito uno “stato canaglia”, uno “stato terrorista”. Appartiene quindi alla Jugoslavia la responsabilità di certe violenze, (analoghe d’altronde a quelle che al principio degli anni ’20 interessarono il resto dell’Italia e buona parte dell’Europa), poiché fu la costituzione e l’attività di organizzazioni segrete e gruppi terroristici ad opera di Belgrado e dediti a sobillare gli Slavi della Venezia Giulia a mettere fuoco ad un panorama etnico sino a quel momento sostanzialmente tranquillo.
Si noti comunque che, a prescindere da tali scontri, comunque di ben modesta entità e che coinvolsero un numero ridotto di membri delle diverse comunità etniche, i rapporti fra Italiani e Slavi in Venezia Giulia continuarono ad essere sostanzialmente pacifici e cordiale anche durante il periodo fascista.
Gli stessi fascisti non erano di solito oggetto di odio dagli Sloveni o dai Croati ivi residenti, quanto di una certa indifferenza, né si deve trascurare il fenomeno, minoritario ma di non piccole dimensioni, del cosiddetto “fascismo slavo”, ovvero di Slavi giulio-veneti che avevano aderito convintamente al movimento fascista stesso.
L’INESISTENTE “PULIZIA ETNICA” FASCISTA IN VENEZIA GIULIA
I dati quantitativi dei censimenti della popolazione della Venezia Giulia, nei periodi che vanno dal 1880 al 1910 e dal 1910 al 1921, attestano come non sia avvenuta nessuna “pulizia etnica” fascista.
Per l’intera durata del primo periodo, la regione in questione fu sottoposta all'amministrazione austroungarica, mentre al termine del secondo ad essa si era sostituita, da soli tre anni, l'amministrazione italiana.
E’ ben noto come il governo asburgico perseguisse il progetto di “germanizzare e slavizzare” la Venezia Giulia, come anche la Dalmazia e l’Alto Adige, secondo le precise direttive di Francesco Giuseppe nel suo consiglio della Corona del 1866, e ciò trova conferma nei dati demografici del periodo 1866-1918, che vedono da una parte espulsioni massicce di Italiani, dall’altra un’immigrazione slava favorita in ogni modo, il tutto accompagnato da una politica persecutoria contro gli Italiani stessi, da violenze, dal mutamento coatto di un gran numero di cognomi ecc.
Può essere importante quindi vedere se il confronto tra i dati statistici dei censimenti austriaci ed italiani attesti un’operazione analoga da parte del nuovo governo, attraverso una differenza tra la popolazione slovena censita nel 1910 e quella censita nel 1921. Le rilevazioni affermano come la popolazione slovena della Venezia Giulia, che nel 1910 era composta da 326.794 unità, nel 1921 fosse passata a 258.927,con una diminuzione di 67.867 unità pari al 26,6% del totale originario del 1910.
Tuttavia, si deve tener conto del fatto che, tra le due date di confronto, ci fu la Prima Guerra Mondiale con i suoi 8,5 milioni di soldati caduti, tra i quali ben 1,2 milioni dell'Esercito Austro-ungarico, a cui si aggiunsero, nel 1919, gli effetti della cosiddette "febbre spagnola". L’epidemia di “spagnola” inflisse alla sola Italia un numero di vittime superiore a quelle dell’intero conflitto mondiale, e condusse a scene che ricordavano la Milano appestata del Manzoni, con ronde di monatti incaricati di caricare i morti. Si giunse a proibire il suono a lutto delle campane, per evitare di dare alla popolazione un’idea delle dimensioni della mortalità. Questa pestilenza fece strage non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo. La gravità di questi due eventi per quanto concerne la Venezia Giulia è innegabile, se si tiene conto di come essa fu zona di guerra per quasi l’intero conflitto e che aveva patito in modo particolare delle conseguenze della spagnola, causa la debilitazione della popolazione. Lo stesso numero assoluto di Italiani ivi residenti, prescindendo quindi da quelli immigrati, era diminuito rispetto a quello del 1910.
Inoltre, è vero che avvennero degli spostamenti di popolazione nel periodo del 1918-1921 in Venezia Giulia, però essi furono volontari, e dovuti a ragioni economiche.
1] Il governo austriaco aveva immesso nella regione, nel suo progetto di “germanizzare e slavizzare […] con energia e senza riguardo alcuno” (verbale del consiglio della Corona austriaca del 1866), funzionari, amministratori, militari di etnia austriaca, ungherese, nonché slovena. Anzi, persino gli impiegati delle poste, del telegrafo, delle ferrovie ecc. erano scelti preferibilmente fra gli Sloveni, sia in rispondenza del progetto suddetto, sia perché tali funzioni erano ritenute di importanza militare. Al momento del passaggio di consegne dallo stato austro-ungarico a quello italiano tutte queste persone, ovviamente, persero il loro posto di lavoro: nessun stato al mondo avrebbe conservato funzionari, militari, impiegati statali di un altro stato, per di più stranieri, e nemmeno originari della Venezia Giulia, in quanto immigrati temporanei, sia per motivi di fedeltà (come era possibile mantenere militari, funzionari ed amministratori stranieri?), sia perché l’ammissione a determinati impieghi è soggetta a precisi requisiti ed a conoscenze diverse da paese a paese.
Come accade sempre ogni qualvolta un territorio passi da uno stato ad un altro, queste persone persero naturalmente i loro posti di lavoro, per cui in maggioranza decisero volontariamente di tornare nelle proprie terre d’origine. Chi però volle restare (qual è il caso di alcune famiglie della piccolissima nobiltà tedesca di Gorizia) lo potè fare. Si trattò di una semplice, abituale ed inevitabile misura amministrativa, comune a tutti gli stati (la Jugoslavia, ad esempio, fece lo stesso sul suo territorio), e non di una “pulizia etnica”, anche perché chi volle fu lasciato libero di rimanere in Venezia Giulia. (Sono molto utili al riguardo le considerazioni di H. Angermeier, “Königtum und Staat im deutschen Reich”, München 1954). Banalmente, come l’Austria si era servita di suoi funzionari, amministratori, impiegati statali, militari in Venezia Giulia, così fece l’Italia.
2] L’unica vera emigrazione per motivi politici, e non economici, dalla Venezia Giulia alla Jugoslavia fu invece quella di poche migliaia (meno di 3000) di nazionalisti Slavi, i quali, anche qui di loro spontanea volontà, si trasferirono subito dopo la guerra nel neonato regno jugoslavo, divenendo al di là della frontiera degli agitatori, propagandisti e terroristi del proprio nazionalismo in territorio italiano. Anche in questo caso non si deve parlare di “pulizia etnica”, perché questo spostamento fu volontario, e coinvolse oltretutto un numero di poche migliaia di persone (J. A. Brundage, “The genesis of the wars: Mussolini and Pavelic”, London 1987)
3] Ancora, bisogna segnalare come anche durante il Ventennio fascista si sia avuta un’immigrazione di Sloveni dalla Slovenia alla Venezia Giulia: il J. L. Gardelles, studioso francese, calcola che almeno 20.000-25.000 Sloveni immigrarono in Venezia Giulia ed ivi presero stanzialmente residenza durante gli anni ’20 e ’30. (“Histria et Dalmatia. Peuplements: essai de synthèse”, “Journal of modern history”, VI (1980), pp. 143-214). Un simile fenomeno, accettato dal regime fascista, è incompatibile con l’idea di un progetto di “pulizia etnica”. Infatti, il censimento italiano del 1936 documentava come, pur rimanendo una netta maggioranza italiana, la percentuale di popolazione slava nella regione era cresciuta rispetto al censimento del 1921.
I diagrammi ed i dati dei censimenti dimostrano chiaramente ed inequivocabilmente la rappresentazione di come non ci sia stato alcun esodo da parte degli sloveni alla fine della Prima Guerra Mondiale. Rispetto al censimento del 1910, la percentuale di Slavi sul totale della popolazione della Venezia giulia si ridusse di 6,5 punti percentuali, per le cause sopra suddette.
Tuttavia, rispetto al censimento del 1921, la popolazione di Slavi in Venezia Giulia era cresciuta di oltre 4 punti percentuali, per lo più in seguito ad un movemento migratorio dalla Slovenia all’Italia, il che dimostra l'inesistenza di una cacciata di massa degli Slavi, essendo anzi in crescita rispetto alla popolazione italiana.
Si deve invece rilevare l’ampiezza della brutale pulizia etnica esercitata dagli sloveni sulla popolazione italiana in lstria, dove la percentuale degli abitanti italiani sul totale della popolazione si ridusse di 80 punti percentuali.

P.S. In quanto all’accusa di aver italianizzato i cognomi, questo è solo parzialmente vero. In realtà, nel periodo 1866-1918 era stato il regime asburgico a slavizzare i cognomi italiani, con l’appoggio del clero slavo. Le norme italiane erano teoricamente rivolte a ripristinare la forma originaria e corretta dei cognomi italiani così slavizzati.
Inoltre, si ebbero altri cambiamenti del cognomen da slavo ad italiano, in alcuni casi imposti, in altri volontari e su richiesta degli interessati. L’Apollonio ricorda come la maggioranza di coloro che ebbero tale mutamento nella grafia del cognome nel secondo dopo-guerra, pur potendo ripristinare la forma slava, scelsero di mantenere quella italiana. Al contrario, i cambiamenti introdotti con l’imposizione dal governo asburgico nell’onomastica non incontrarono adesione alcuna.
E’ pertanto possibile dire che in alcuni casi avvennero sì italianizzazioni di cognomi slavi contro la volontà dei titolari, ma che furono casi complessivamente limitati, in quanto di norma si trattò di ripristino dell’originaria forma italiana del cognome stesso (slavizzato dall’amministrazione austriaca) oppure di un mutamento volontario.

venerdì 14 agosto 2009

Il saluto romano

Il celeberrimo “saluto romano”, compiuto alzando il braccio destro teso o leggermente piegato, e mostrando la palma, diffusosi prima nell’Italia fascista, poi, con alcune varianti, in molti altri paesi autoritati dell’epoca, come la Germania, la Spagna, la Grecia, ed ancora oggi adoperato negli ambienti di destra, ha un’origine controversa.
La sua adozione da parte del fascismo avvenne per imitazione del saluto militare compiuto dai legionari fiumani del D’Annunzio. Il Vate, uomo di notevole cultura ed amante della classicità, presentava tale gesto quale, appunto, la forma di saluto degli antichi Romani. Non è però affatto chiaro da quali testi il poeta abruzzese avesse tratto tale idea.
In verità, gli storici non concordano sull’esistenza in epoca romana di una tale forma di saluto, perlomeno codificato dalle norme militari per i legionari o dai mores per i semplici Quiriti. Esistono fonti sia letterarie, sia iconografiche, che documentano l’esistenza di determinate forme di saluto, tuttavia bisogna interpretarle correttamente e collocarle negli specifici contesti sociali d’uso.
L’esistenza di un “saluto militare” formalizzato appare altamente probabile sulla base di alcuni passi, come di uno del De bello africo dello Pseudo-Cesare, in cui si accenna ad una salutatio more militari. Però, brani dal contenuto analogo si rintracciano, ad esempio, nel De bello civili, nella Vitae Cesarum di Svetonio, in Flavio Giuseppe ed altri autori ancora, quale Publilio Siro.
Secondo molti storici il saluto romano "classico", quello ripreso dal Fascismo, esisteva sicuramente nel periodo delle Guerre Puniche, ed era praticato, (Carocci, Storia completa della Romanità nel regime fascista, Garzanti, 1999), con il braccio destro teso all'altezza del volto. Un altro studioso, il Rome ha proposto una variante molto interessante, testimoniata da alcuni autori minori, Publilio Siro, nella Roma di Cesare. La leggenda la vuole introdotta da Mario. Avveniva così, come avete visto: il pugno destro sul cuore, e poi il braccio allungato, sempre all'altezza del volto.
Esistono numerose attestazioni di una simile forma di saluto. la famosa statua dell'Arringatore del Trasimeno la celeberrima statua dell'Augusto di Prima Porta; l’altrettanto celebre stata equestre di Marco Aurelio in Campidoglio. Alcuni storici anglosassoni ritengono che il monumento equestre di Marco Aurelio, in origine posizionato dove ora sorge la Basilica lateranense e quindi di fronte alla caserma degli equites singulares, stesse a significare il sovrano che rispondeva al saluto militare che il reparto gli stava facendo La Colonna Traiana raffigura invece una salutatio imperatoria da parte delle legioni, nella quale i milites salutano tutti insieme il principe alzando il braccio destro non esteso completamente. Una gesto praticamente identico compare in un rilievo funerario di Efeso del II secolo d.C., in cui il defunto, un militare, saluta il proprio superiore con braccio proteso in avanti ed un poco piegato, palma rivolta verso il comandante, tutte le dita unite tranne il pollice allargato. Inoltre, anche alcune raffigurazioni su monete rappresentano la stessa scena. Ancora, Giuseppe Flavio nel suo De bello iudaico segnala come i legionari, acclamando il loro comandante, alzassero tre volte il braccio destro.
Altri storici hanno però fanno notare come esista una discrepanza tra i gesti raffigurati nelle opere figurative suddette, in quanto nelle tre statue sopra ricordate, a differenza della Colonna Traianea e di alcune monete, il gesto ritratto non veda la mano interamente distesa, ma soltanto l’indice, sollevato verso l’alto, mentre le altre dita sono di solito leggermente piegate verso il basso. Questo, assieme ad altri fattori, ha indotto alcuni studiosi a ritenere che questo gesto sia quello dell’adlocutio, con cui un oratore si rivolge al suo pubblico iniziando il discorso, e non un vero e proprio saluto militare.
Altri ancora hanno proposto altre forme alternative di saluto militare, rispettivamente l’alzare la mano sull’alto verso l’elmo, in maniera analoga al saluto militare contemporaneo (documentato da due rilievi, fra cui celebre quello di Domizio Enobarbo) ed il portare la mano destra a pugno chiuso sul cuore.
Inoltre, non mancano storici che dubitano dell’esistenza di un autentico saluto militare codificato in epoca romana, ed interpretano i vari gesti sopra segnalati, tranne l’adlocutio che però era propria dell’orator, quali espressioni informali, analoghe al cenno di saluto che ancora oggi in Occidente, ed altrove, si compie verso un amico alzando un braccio.
Un discorso a parte deve essere fatto per il cosiddetto “saluto gladiatorio”, compiuto stringendosi gli avambracci, che è ritenuto essere l’equivalente della stretta di mano oggi diffusa, e che era il saluto informale e cameratesco dei legionari, (oppure dei gladiatori?), e dei semplici vires.
A modestissimo parere del sottoscritto, la frequenza con cui l’iconografia segnala il salus iuvare con il braccio destro alzato e la palma rivolta innanzi a sé, in concordanza con le testimonianze di testi letterari su una specifica salutatio fra legionari, induce a ritenere che un gesto molto simile all’attuale “saluto romano” esistesse effettivamente, perlomeno in ambito militare. La continuità di tali attestazioni nel corso dei secoli ed in periodi differenti, dalla repubblica all’impero, costituisce un’ulteriore convalida di tale ipotesi.Prove certe e definitive della veridicità di tale teoria non esistono, tuttavia tale ipotesi appare quale la lectio probabilior fra le diverse contrastanti.