sabato 16 ottobre 2010

IL CONTE DI FUENTES

Dal blog di Marshall

Da "Le fortificazioni del lago di Como
"Casa Editrice Pietro Cairoli - Como 1971
Libro di grande valore storico, assolutamente irreperibile e introvabile.Le pagine qui trascritte integralmente, fanno parte del capitolo relativo al saggio di Pier Amedeo Baldrati
"LA FORTIFICAZIONE SPAGNOLA NELL' ALTO LARIO"


IL CONTE DI FUENTES


    Sin dalla lontana epoca degli studi la figura e le opere di questo altoufficiale spagnolo ci affascinarono nelle narrazioni e nelle letture. Chi ce ne parlava, e così gli autori dei testi, pur non facendo astrazione dalla generica condanna storica globale del governo spagnolo in Italia, non era alieno dal riconoscere a quest’uomo un modo di sentire e di agire intelligente che lo distingueva, elevandolo, tra i suoi connazionali.
   La critica storica in genere riconosceva al Fuentes una certa stima per le sue opere in Lombardia.
    Più tardi le piccole faville di interesse accese sui banchi scolastici a poco a poco alimentarono il fuoco della ricerca e ci accorgemmo che la figura del Fuentes acquistava rilievo ed importanza e che i suoi tratti caratteristici ad un certo punto si allontanavano sempre più dal clichè che usasi attribuire ai militari di carriera, per assumere i contorni netti dell’uomo di Stato e del diplomatico di alto livello.
   Abbiamo voluto indagare a fondo su quest’Uomo spingendo la ricerca non solamente allo specifico campo delle armi (vedere allegato 1 al relativo capitolo del libro), ma approfondendola in quello governatoriale, a quelle branche che un diffuso modo di pensare, anche attuale, ritiene non congeniali“a’ militari”.
     Ci riferiamo all’operato del Conte di Fuentes nel suo decennio di Governatorato per quanto attiene i campi amministrativo, giudiziario, edificatorio (vedere allegato 2 al capitolo del libro). Per quanto parimenti cospicua, esula dai limiti dell’argomento l’attività diplomatica che abbiamo preso in esame e la citeremo sol per quel che concerne i Grigioni, anche perché la materia è stata diffusamente trattata da altri ricercatori attenti e precisi che hanno finito per attribuire al Fuentes quello che oggi si direbbe “il massimo del punteggio e la lode”.
     In ciò si concorda a distanza di secoli in quanto la Diplomazia Veneta, sempre attenta, efficiente e precisa, definisce il Fuentes all’atto del suo arrivo a Milano “Il più grand’uomo che abbia la Spagna”.
    Il Conte giunse quindi nelle nostre terre al termine di una brillante carriera militare, durante la quale aveva tenuto il comando di importanti scacchieri operativi in modo egregio. Il suo fine sentire diplomatico era già emerso durante la Campagna delle Fiandre e lo aveva fatto, agli occhi del Re di Spagna, l’ideale successore in Lombardia del non brillante Conestabile di Castiglia.


     I suoi primi atti in Italia dimostrarono come la scelta del Re fosse felice, il non impegno a sostegno del Duca di Savoia e gli ottimi rapporti con il cardinale Borromeo sono sottilmente intelligenti e gli permettono un tranquillo periodo di conoscenza e di assestamento nel nuovo incarico. Ciò gli consente di impadronirsi appieno della pur vasta materia governatoriale di indole interna e di regolamentarla, ma - quel che più conta - di instaurare la potestà di imperio nel territorio amministrato. Il Fuentes seppe appianare con molto tatto il caso della Monaca di Monza che avrebbe potuto danneggiare non poco i militari spagnoli.
    Nei confronti dei Grigioni la sua politica fu caratterizzata dal desiderio di togliere loro il dominio sulla Valtellina e la Valchiavenna acquisendo alla Corona di Spagna questi due territori dove, tra l’altro, era stata introdotta la Riforma protestante. Nella sua cocciuta, continua ed abile azione contro le “Tre Leghe Grigie” crediamo scorgere anche il classico sciovinismo del cattolico spagnolo.
     Conveniamo però con tutti gli autori precedenti che al Fuentes si deve l’italianità delle due Valli ed alle sue opere fortificate (in massime al Forte con il suo nome) il mancato ingrandimento del dominio svizzero in Italia.
    Verità vuole che al Conte fossero mosse accuse di indole amministrativa e che i coevi non concordino sulla bontà della sua politica; con altrettanta verità dobbiamo però annotare che alla moderna critica storica queste accuse non hanno retto. 
    Buon per l’Italia che “Il Re comandi a Madrid ed io a Milano” (come soleva dire il Conte): se così non fosse stato, i cippi confinanti sarebbero oggigiorno ben più a sud degli attuali.
     Il Conte di Fuentes, all’inizio del suo governo, trovò una situazione non lieta alla frontiera nord dello Stato. Gli accordi in via di perfezionamento tra i Grigioni e la Francia soffocavano la Lombardia, prevedendo il passaggio di truppe francesi dirette in Valtellina. Per ben tre anni con oro, blandizie e ambascerie il Fuentes tentò impedire ciò che paventava come esiziale ai domini del suo Re; ma quando a Coira oltreché con il Re di Francia si credette bene siglare un’alleanza anche con la Repubblica di San Marco (il cui confine non dimentichiamolo era sull’Adda) ruppe gli indugi e, inviata una violenta lettera a Grigioni, proclamò il blocco dei commerci e decise di erigere una fortezza al confine.
    Egli ben sapeva quanta ombra dessero ai Grigioni le fortificazioni permanenti in vicinanza dei confini in quanto non doveva essergli ignoto il loro costante impegno dispiegato contro la rocca del Medeghino a Musso. A questo punto si muove tutto l’apparato statale spagnolo con una rapidità che ci stupisce. Il che sta a dimostrare gli ottimi risultati raggiunti dal Fuentes in tutti i settori dell’amministrazione, non esclusi le comunicazioni ed i trasporti. Nell’esame delle circostanze successive teniamo ben presente che la lettera ai Grigioni è datata 13 settembre 1603.

AVVENIMENTI DEL SECOLO XVII

    Il 17 successivo il Residente Veneto a Milano dava urgente avviso al suo Governo delle intenzioni del Conte.
     Il 24 settembre giungevano in Alto Lario tre compagnie spagnole al comando del Capitano Cristobal Leuchuga sotto colore di eseguire ricognizioni per la progettata costruzione di una strada al Passo di Sant’Jorio. In realtà le ricognizioni si svolsero sulla collina del Monteggiolo sotto la direzione dell’ ingegnere militare Gabrio Busca. Il Fuentes ne dava avviso a Madrid il 10 ottobre mettendo il sovrano così davanti al fatto compiuto. I Grigioni dal canto loro ben capirono a cosa tendesse il Fuentes; infatti il 13 ottobre il Governatore della Valtellina, Sonnwig, informava Coira dell’arrivo delle truppe spagnole e dell’imminenza dell’erezione della fortezza, tanto più che si aveva notizia dell’ordine impartito dal Governatore di Como circa il caricamento di tutte le fornaci da calce del Lario da accendere solo su ordine.
     Il 20 ottobre a Milano il Conte, evidentemente disponendo dei risultati delle ricognizioni, convocati quattro membri del Consiglio Segreto ed uditi il Lechuga ed il Busca, impartiva l’ordine esecutivo per la costruzione della fortezza. Di tale riunione la occhiuta diplomazia veneta dava immediato avviso alla Serenissima. Non meno attiva quella ecclesiastica informava il Vaticano da Como non appena il Governatore ordinò l’accensione dei fuochi alle fornaci. A questo punto è utile citare come l’idea di erigere una fortezza, in quel luogo e per quegli scopi, fosse stata adombrata, in un promemoria consegnato al Vaticano, da un fuoruscito Grigione, Broccardo Borroni, che parecchi autori indicano erroneamente quale progettista del forte.
     Il 23 ottobre il Governatore di Como riceveva l’ordine esecutivo per l’inizio dei lavori, nel frattempo però sulla collina di Monteggiolo erano giunti l’Ingegner Busca, sette Compagnie di fanteria, due Compagnie di Guastatori, tre pezzi di artiglieria. I lavori dovevano essere protetti da palizzate provvisorie e da fascine. Anche questo non sfuggì al Residente Veneto che ne fece oggetto di rapporto dettagliato al suo Governo.
     Il 24 ottobre il Governatore di Como avviava ai lavori un cospicuo carico di zappe, badili e attrezzi, nonché un rinforzo di cinquecento uomini. Il 25 ottobre sulla collina di Monteggiolo venivano effettuati i primi lavori di tracciamento, livellamento e sbancamento. Il 27 ottobre si procedeva allo scavo delle fondazioni: la forza militare presente assommava a milleduecento uomini. Rispetto alla universalmente accettata concezione di lentezza amministrativa iberica si deve convenire che, nel caso in oggetto, si verificò una lodevole eccezione dovuta sia agli ordini del Fuentes sia all’efficienza dei sottoposti militari e civili. L’organizzazione di un grande cantiere, messa in essere in appena sette giorni, considerati i tempi è un esempio di rimarchevole celerità. Che si trattasse di estrema urgenza è dimostrato dall’atto ufficiale di presa di possesso dei terreni (di proprietà della Mensa episcopale di Como) avvenuto solo il 27 ottobre a lavori già iniziati. Siamo comunque a trentaquattro giorni dall’ordine esecutivo.
    Subito ebbero inizio le lamentazioni grigione in nome di antichi diritti, sanciti da trattati, ma il Fuentes le respinse traendo motivo (validissimo) dalle recenti alleanze e blandendo gli ambasciatori grigioni col dire loro che “una volta tornata la buona armonia reciproca la fortezza avrebbe servito alla comune difesa (sic)”.
    Il 28 ottobre venne posta la prima pietra, presente il Governatore di Como in rappresentanza del Fuentes. Il 31 ottobre trincee e palizzate per la difesa vicina erano già rizzate ed all’interno di esse si vedevano i baluardi in costruzione. La forza presente era frattanto salita a otto Compagnie di Fanteria, duemila Guastatori e venti pezzi di artiglieria. Comandante il complesso lavoro-difesa il Governatore di Como, marchese Pallavicino.
      Il 1° novembre la costruzione assumeva ufficialmente il nome di “Forte Fuentes” che tuttora conserva. Il 24 novembre il Governatore di Como informava il Fuentes dell’andamento dei lavori, suggerendo che era tempo di dare ordini per una guarnigione stabile e per il relativo supporto logistico. Il lavoro era ininterrotto, si procedeva per turni anc he di notte alla luce di fascine ardenti le cui fiamme dovevano apparire ben sinistre ai trecento soldati grigioni stazionati a ridosso del confine. I Grigioni frattanto non avevano smesso di intercedere presso il Fuentes per ottenere soddisfazione. Accortamente e per renderli più malleabili il Conte dava ordine di sospendere i lavori il 20 dicembre, data piuttosto comoda considerata la stagione.
   Il marchese Pallavicino informava Milano che alla data del 6 gennaio 1604 non restavano al Forte che quaranta uomini. In sostanza il Fuentes cercava di ottenere il distacco dei Grigioni dalla Francia e da Venezia per indebolirne le forze e togliere loro la Valtellina; ma quando si rese conto delle pressioni francesi e venete sul Governo di Coira ne diede avviso il 17 febbraio a Madrid, che il successivo 8 aprile gli rispose di ultimare la costruzione del Forte (lettera Sovrana da Valladolid dell’8 aprile 1604). Con la consueta rapidità l’ 11 aprile giungevano al Forte per via d’acqua uomini, attrezzi, vettovaglie e otto pezzi di artiglieria. Il 3 maggio 1604 entrava nel Forte il secondo Comandante che, ricevute le consegne dal capitano Lechuga, accelerò i lavori attivando altre otto fornaci da calce in quel di Rezzonico e pubblicò i bandi di blocco al confine grigione. Il 6 maggio 1604 il Conte di Fuentes inviava al Re Filippo III una dettagliata relazione sul Forte unendovi piante e piani di fuoco e chiedendo altro denaro. Sentito il Consiglio di Stato, il Sovrano ordinava l’11 giugno successivo l’ ultimazione dei lavori promettendo l’invio di 200.000 scudi. Il Conte di Fuentes vide una sola volta il Forte. Ormai settantacinquenne egli si partì da Milano su un cavallo d’ordinanza avendo seco quello che oggi si direbbe un Comando Tattico ed una Casa Civile, oltre naturalmente alla scorta composta dalla prediletta Cavalleria Leggera e da Archibugieri. Il 1° novembre 1604 giunse a Como, dove espresse il suo malcontento circa lo stato delle truppe ivi stanziate perché trovate alla rassegna scarse di cavalleggeri. Per via d’acqua proseguì per Bellagio giungendo il 3 novembre a Gravedona da dove, in barca e con sole tre persone al seguito, pervenne al Forte la sera.
     Questo sistema di ispezioni-lampo lumeggia i tratti etico-professionali caratterizzanti il vecchio ed esperto ufficiale, ed accresce la nostra simpatia per la sua memoria. Per la notte egli, rappresentante del Re di Spagna, non chiese che un letto da soldato e dormì in una casamatta ricusando un alloggio migliore. Il giorno successivo visitò minutamente il Forte che trovò in ordine, e se ne compiacque con il comandante, si recò poi alla foce Mera, alla bocca d’Adda (5 novembre) a San Fedelino e lasciò intendere d’aver in animo l’erezione di altra fortezza di fronte a Chiavenna. Dopo aver pernottato a Gravedona, il 6 novembre il Conte si trasferiva per via d’acqua a Soncino, lasciando ordini per la costruzione di una strada sulla sponda occidentale del lago di Como. Per inciso diremo che la visita a Soncino aveva per oggetto la costruzione di quella fortezza. Per tutto l’anno e nel successivo 1605 i Grigioni si barcamenarono tra la Francia, Venezia e la Spagna sinchè il Fuentes ruppe bruscamente i negoziati. Ma ormai la fortezza era completata.     Nel 1608 il Fuentes ordinava la costruzione di un’opera accessoria ed il completamento dei quartieri all’interno del Forte. Con ciò veniva distrutta l’ antica Torre di Olonio, i cui materiali furono impiegati per erigere il Fortino d’Adda. La fortezza, con il suo sistema contiguo, era ormai una realtà efficiente e ben poteva disimpegnare i suoi compiti. E’ il caso di esaminare, sia pure brevemente, il Forte nel dettaglio.    
Le condizioni attuali sono definibili “ruine” (n.d.r. questo saggio è stato scritto per un convegno nel maggio 1970) e tali risultano nella cartografia di guerra angloamericana dell’ultimo conflitto. Con l’aiuto però di descrizioni antiche cercheremo di dare un’idea di quel che furono le costruzioni del Forte. Costruzione bastionata con muraglioni continui (può darsi merlati) in pietra di estrazione locale. Legamento in malta di calce e sabbia fluviale che a causa del pietrame usato appare piuttosto grasso e ancor oggi ben resistente. Pianta generale grossomodo trapezoidale con la base più lunga parallela all’attuale sede ferroviaria. I bastioni seguono l’andamento del terreno con speroni sui dorsi e cortine nelle incisioni. Sulle testate due tenaglie: quella a sud più ampia con porta e ponte elevatoio e due corpi di guardia, quella a nord chiusa ma dotata di sortita. Contromuri esterni bastionati sulla testata nord e lungo la base minore del trapezio nonché su una porzione del tratto nord- ovest.
Accessi:
- sentiero dall’attuale sede ferroviaria;
- passo carraio dalle case di Monteggiolo.
Rifornimento idrico: cisterne a sezione tonda e rivestimento in malta in numero di cinque, scavo (presumibilmente tentando di raggiungere l’acqua a livello del Piano) molto profondo e non rivestito presso la cannoniera moderna.
I quartieri avevano andamento longitudinale e comprendevano caserme, magazzini, ospedale, chiesa, molino e forno. Grande cortile tra i quartieri, sotto al quale esistono vasti sotterranei. Le casematte più robuste sono verso la tenaglia nord ed il particolare andamento di alcuni bastioni interni (fronte al cortile principale) fa pensare che proprio la parte nord del Forte fosse da considerarsi la Rocca per un’estrema resistenza. Dimensioni complessive: m. 370 x 125. Il cimitero sorgeva all’esterno nella porzione meridionale del lato nord-ovest. Osservazione: torrette tonde verso ovest e verso sud. Armamento di Artiglierie: cannoni da 15 cm. Cannoni da 10 cm.; cannoncini da 6 cm.; mortaio da 20 cm.; mortaietti da salva da 10 cm.
Opere accessorie:
- Torre di Sorico: osservazione e sbarramento sulle provenienze dalla Berlinghera e da San Fidelino;
- Torretta del Passo: sbarramento e controllo terrestre ed acqueo sul Piano e sul Mera;
- Fortino d’Adda: osservazione e sbarramento come sopra (posto scoglio);
- Torrino di Borgofrancone: osservazione e blocco di via d’acqua;
- Torretta di Curcio: osservazione e sbarramento della provenienza dalla Valtellina (posto-scoglio);
- Torre di Fontanedo: barramento delle eventuali infiltrazioni a mezza costa sulle pendici del Legnone, protezione della sede dell’autorità civile di Colico, osservazione su tutto il piano (è il punto più alto del sistema).
     Unica gravissima carenza era la mancanza d’acqua (eccettuate le opere accessorie di Sorico, Passo, Curcio e Fontanedo) specie nel Forte. Il cattivo stato delle cisterne (male cronico) , il dover rifornirsi d’acqua alle falde del Legnone ed infine terribile la malaria imperversante ovunque falcidiò sempre comandanti e gregari.
      L’impiego bellico del Forte e del suo sistema ebbe inizio in concomitanza alla Rivoluzione Valtellinese del luglio 1620, quando milizie grigione di passaggio nei pressi di Dubino furono cannoneggiate, e successivamente si estrinsecò con il fornire sei pezzi da campagna e relativi armamenti alla spedizione a sostegno dei Valtellinesi. Sino alla fine della Campagna il Forte fornì base di transito e sostegno logistico al Corpo di Spedizione spagnolo. Nel 1622 furono alloggiati nel forte dei prigionieri di guerra. Tutto il restante periodo sino alla fine del XVII secolo fu contrassegnato dal gravoso servizio della guarnigione falcidiata dalla malaria. La situazione idrica e sanitaria si fece grave nel 1675 ed una ispezione venne inviata da Milano. Essa concluse che era necessaria una revisione delle cisterne e consigliò l’acquisto di un carro botte per l’acqua di montagna proveniente da Curcio. La carenza d’acqua, come vedremo, provocherà trecento anni più tardi la resa di altro forte vicino.

lunedì 20 settembre 2010

Notizie storiche sul Medeghino

Aggiornamento del 6 aprile 2014 Qui l'edizione integrale del libro di Giuseppe Arrigoni
http://books.google.it/books?id=Lf5SAAAAcAAJ&pg=PA81&lpg=PA81&dq=entierro+a+primaluna&source=bl&ots=vwF2JCeggH&sig=9t8uBcagvrMF7FP19X_71P0DtSM&hl=it&sa=X&ei=T8Y3U9ShGcuBywO26oCICQ&ved=0CEsQ6AEwBA#v=onepage&q=entierro%20a%20primaluna&f=false


Giuseppe Arrigoni – Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe – FORNI EDITORE BOLOGNA 1840.
Libro Terzo - Cap. VII
La Valsassina corsa e depredata dai Grigioni – Viene occupata da G.G.Medici e poi concessagli in feudo – Il Medici prende Chiavenna e porzione della Valtellina – Perde queste regioni – E’ sconfitto a Delebio – Marco Grasso per la Valsassina entra nella valle del Bitto, ma vi è respinto – Il Medici entra nella Brianza ed occupa Monguzzo – E’ battuto dal Leyva – Prende Lecco, ma è subito costretto ad abbandonarlo – Lo ottiene in feudo dall’Imperatore – Battista Medici per la Valsassina penetra nella Valtaleggio e l’occupa fino a Zogno – Ritorna a Musso per la stessa via.

I fatti che io vo in questo e nel successivo capitolo a narrare sono di un’importanza comparabilmente maggiore degli altri esposti nel presente libro. Imperciocchè racchiudono essi un nuovo periodo di indipendenza dei Valsassinesi e le ultime prove del valore e della gloria loro. Un venturi ero, colta l’opportunità dei tempi, si fece signore del lago e della Valsassina, e qualche tempo si mantenne nel suo piccolo stato infliggendo guerra ai Grigioni, al duca di Milano ed all’Imperatore. Fu questi Gio.Giacomo Medici denominato il Medeghino, il quale, ottenuto con un omicidio e con un inganno il castello di Musso, fortificassi in esso prendendo a soldo tutti quelli che volevano arruolarsi sotto la sua bandiera (1523).
In quel tempo Francesco I re di Francia preparavasi al riacquisto del milanese. In soccorso di lui già eran discesi dalle Alpi 5000 Grigioni sotto la condotta di Renzo da Ceri, il quale doveva passare a Lodi e congiungersi ai fanti italiani capitanati da Federico da Bozzolo. Il Ceri, attraversando la Valsassina, si era portato a Capriano. Contro di lui il duca mandava Gio. De Medici con alcune bande, le quali fino agli alloggiamenti dei Grigioni si spinsero. Ma questi, dopo esser stati tre giorni oziosi, querelandosi di non trovare le promesse paghe, per la strada d’onde eran venuti se ne tornarono a casa (Guicciardini: Istoria d’Italia, lib. XV, cap.III – Calvi: Campidoglio cc., pag 290).
Calavan poco dopo dalla Spluga altri cinquemila fanti Grigioni sotto la condotta di Dietegano Salice per imbarcarsi sul Lario e recarsi nel milanese in aiuto del re. Il Medici che ne aveva avuto avviso, per far cosa gradita al duca e ottener l’investitura di Musso e delle Tre-Pievi, percorse amendue le rive del lago fino a Rezzonico e Bellano, sequestrando tutte le barche, onde Dietegano non potesse servirsene. Giunto di fatto a Colico dovette defilar le truppe per dirupati sentieri verso la Valsassina, e sei giorni dovette impiegare a giungere a Bellano, essendogli dal Medici continuamente contrastato il passo col fuoco dei cannoni posti sopra barche e con spessi postamenti nei luoghi più difficili e difende voli. Entrati i Reti nella Valsassina ogni cosa quasi a vendetta malmenarono. Sboccarono quindi a Lecco e si portarono in Gera d’Adda. Ma poiché le Tre Leghe Grigie videro dal Medici minacciata Chiavenna, richiamarono il Salice il quale con ogni prestezza ripassò la Valsassina, e, recatosi a Colico, tentò il passaggio dell’Adda e recossi nelle Tre Pievi a combattere il Medici, ove venne da questi respinto.
Conoscendo allora il castellano di Musso l’importanza del passo della Valsassina, e di quanto aiuto potesse essergli l’acquisto di questa valle per l’opulenza sua e pel genio degli abitanti all’armi avvezzi, tenne segrete pratiche coi primati ed entratovi ostilmente la occupò. Ottenne poi dal duca un’onorata provvigione col titolo di governatore di Musso, di amendue le rive del lago e della Valsassina.

Accresciuto così di potere e di forze volle il Medici tentar l’acquisto dell’importante borgata di Chiavenna. Mandò a quell’impresa certo Riccio, il quale, tolti seco soli diciannove fra i più prodi ed
arrischiati militi, appiattossi di notte sotto i baluardi del castello aspettando che il governatore Wolfio Silvestri escisse, com’era uso. Come appena fu fuori lo prese e l’obbligò a far calare il ponte del forte, nel quale entrato, e disarmata la guernigione, attese che gli venisser soccorsi dal Medici.
Appena del fatto avvertiti furono i Grigioni raccolsero dalle vicine valli mille e cento uomini e si riunirono in Chiavenna. Non tardò a sopraggiungere il Medeghino con seicento soldati del suo dominio e alcuni spagnuoli e con un cannone, e dato di fitta notte l’assalto, entrò a viva forza nel borgo, fugando i Grigioni ed inseguendoli per le valli e pei monti (1524).
Vedendo il Medici in auge la sua fortuna meditò l’acquisto della Valtellina, per la quale impresa ottenne che il conte d’Arco governatore di Como con trecento fanti il soccorresse. Lasciato Francesco Del Matto con buon presidio alla guardia di Chiavenna, col resto degli uomini penetrò nella Valtellina occupando Delebio e Morbegno. Ma udendo poi che minacciata era Chiavenna, solo, e sotto mentite spoglie, vi si portò, lasciando al conte d’Arco la cura del proseguimento dell’impresa.
I Grigioni andavan pure preparandosi alla presente guerra, e già d’armi e d’armati avevano empito tutta la Valtellina, e richiamati eziandio seimila fanti che militavano al soldo dei Francesi sotto le mura di Pavia. Per lo che il conte stimò opportuno di porsi in più difendevole situazione ed in modo d’impedir la comunicazione dei nemici con Chiavenna, accampandosi a Dubino oltre l’Adda, ove sconfisse una schiera di Grigioni che, venuta da Pavia, si avviava a Chiavenna.
Ma i Grigioni, cui stava a cuore il ricupero di questo borgo, con tutte le forze piombarono addosso al conte d’Arco e l’obbligarono a snidare di là. Presero quindi Chiavenna; ma la rocca, nella quale era il Riccio, strenuamente si difese per qualche tempo sostenendo venti assalti. Finalmente per mancanza di viveri si rese a condizioni.
Il Medici, intanto che qualche tempo prima erasi recato nelle Tre Pievi per farvi raccolta di gente e di denaro, trovandosi incapace a portar soccorsi a Chiavenna, fece una scorreria nella Valtellina, sbarcando a Colico con novecento armati, e dirigendosi verso Traona, ov’era acquartierato un corpo di Reti. Giunto però a Delebio e d’improvviso assalito dai nemici fu messo in fuga.
Nel tempo stesso, con cinquecento archibugieri Valsassinesi e Lariani, Marco Grasso dalla Valsassina discendeva in Valtellina per la valle del Bitto per attaccare simultaneamente da quella parte i Grigioni. Egli pure, come fu arrivato a Sacco, luogo poco da Morbegno discosto, venne all’impensata assalito e messo in iscompiglio. Riordinatosi però tostamente ed occupata un’altura, si diede a far fuoco disperatamente sui nemici. Ma per la sovrabbondanza del numero dei soldati Grigioni, vedendo di non poter lungamente sostenersi, girò per le creste di quei monti per portarsi in Valmadre, che è dirimpetto a Berbenno, ed entrar da quella parte in Valtellina. Dovendo però passare pel territorio veneto, i rappresentanti della repubblica non vi dieder l’assenso, onde dovette retrocedere (1525). Durante queste vicende era stato fatto prigione il re di Francia e stabilito nel ducato lo Sforza. Se non che la crudele ed ambiziosa politica dell’imperator Carlo V, che pareva mirasse al dominio dell’Italia tutta, suggerì ai principi della penisola di formare una lega per cacciarnelo ed assicurare il trono allo Sforza, che quasi prigione si teneva dal marchese di Pescara, general supremo delle armi cesaree in Lombardia. Del che accortosi il Pescara imprigionò Girolamo Morone ministro del duca e macchinatore di questa lega, ed occupò in nome di Carlo V tutte le città del ducato. Tentò altresì, ma inutilmente, di indurre il Medici al rilascio delle Tre Pievi e della Valsassina. Laonde questi, che temeva di una guerra cogli Spagnuoli, stipulò coi Grigioni una tregua, durante la quale rivolse l’animo ad ingrandire il dominio, e senza ostacolo sottomise tutte le terre del lago e la valle di Menaggio fino a Porlezza.
Favorendo quindi le mosse dell’esercito dei confederati, che erasi accostato a Milano, colle milizie del lago e della Valsassina, e con alcuni Svizzeri da lui assoldati con denari della lega, entrò nella Brianza. Ma essendo riescito a nulla tutto quell’apparecchio di guerra, il Medici, per non tornarsene a casa colle mani vuote, di notte diede la scalata al castello di Monguzzo, che guardato era da Alessandro Bentivoglio, e lo prese.
Per ordine di Antonio de Leyva, succeduto al Pescara nel comando delle truppe cesaree, il quale di mal animo vedeva l’ingrandimento di questo partigiano dello Sforza, il conte Lodovico Belgiojoso portossi a Monguzzo per togliere il castello dalle mani del Medeghino, ma vi fu respinto colla perdita di più di cento soldati e quattro cannoni.

Resosi il Medici padrone di Monguzzo, facilmente veniva in suo potere quasi tutta la Brianza. E perché necessitava di pecunia, quanti ricchi e facoltosi v’erano nei dintorni imprigionò per trarne riscatto col qual mezzo potè assoldare alcune compagnie di Grigioni, e annoverare così quattromila fanti e cinquecento cavalli. Con queste forze mosse a Carate. Ma il Leyva, cui, com’egli stesso diceva, tornavan più dannose le tumultuarie bande del Medici, che non le truppe ducali, avuto avviso di questa marcia, alla sera abbandonò Milano, e all’alba seguente con buone truppe si trovò a Carate. Feroce ed ostinata zuffa si accese fra i due eserciti, ma l’esito fu sfavorevole ai nostri per la caparbietà dei Grigioni, che sospettando del Medici, abbandonarono il posto loro assegnato (1528).
Era allora governatore di Lecco un Villaterello, spagnuolo, nemico intensissimo al Medeghino. Costui, non avendo mai potuto né per astuzia militare, né per forza tener a freno il Medici, pensò di levargli Musso con frode. Chiamato a sé un Gasparino Sardi, suo prigione, già intrinseco del Medici, e che ora se ne mostrava malcontento, gli promise la libertà se toglieva Musso al castellano. Accettata la proposta e data garanzia, il Sardi volò a Musso, e col Medici indettossi come potevano ingannare il Villaterello. Tornò quindi a Lecco e tolse seco per la finta impresa alcuni spagnuoli ed un fratello del governatore. Sotto colore di sorprendere Musso ve li condusse. Ma appena posero piede sulla soglia che tutti vennero trafitti, ad eccezione di due, i quali reputandosi meravigliosamente salvati, si votarono frati. Un brigantino, postato a poca distanza, essendo così concertato col Villaterello, sentito che ebbe lo sparo del cannone, indizio della riuscita impresa, partì a portarne l’avviso a Lecco. Il governatore a questa nuova, col resto delle sue genti, s’imbarcò tosto per prestar soccorso se uopo fosse; ma giunto a Mandello seppe l’infausto caso, e scornato ritornossene a Lecco, ove poi, dolente per la morte del fratello, ottenutene il corpo, rinunziò il governo della fortezza, né più volle rivedere questi paesi.
La nuova arrivata al Villaterello prima del tempo calcolato dal Medici, tolse a questo di compiere il suo disegno; poiché aveva disposto che appena quello avesse passato Varenna venisse chiuso con catene e legnami il ramo del lago per poterlo così costringere ad una battaglia, la quale facilmente l’avrebbe messo in potere di Lecco. Volendo però ad ogni costo impadronirsi di quel importante e ricca borgata, ivi, si portò non guari dopo con trecento fanti e quattro cannoni, occupando in sulle prime il ponte ed il borgo. Lucio Brisighello, che era subentrato al governo con alcune bande di Calabresi, rinchiusosi nella rocca, si dispose a sostenerne l’assedio, sperando nei soccorsi del Leyva; ma difettando poi d’annona, per consiglio del podestà fece escire da sessanta fra i primi del borgo, i quali, presi dal Medici, gli fruttarono grossa somma se vollero esimersi.
Non furono però tardi i soccorsi del Leyva, inviandogli numerose schiere veterane comandate da Filippo Tornielli, da Lodovico Belgiojoso, da Cesare Maggi e dall’Ibarra spagnuolo. Questi, superate avendo alcune truppe veneziane guidate dai capitani Cosco e Farfarello che venute erano al soccorso del Medici fino al luogo detto il Pertugio, mossero verso Lecco ed obbligarono i nostri a ritirarsi (19 marzo1528).
Ciò che colle armi non potè avere, ottenne il Medici collo sborso di una certa somma di denaro, confermandogli il Leyva a nome dell’imperatore i possessi che aveva, e dandogli il titolo di marchese di Musso e conte di Lecco, impetrata prima per quest’ultimo la cessione delle ragioni di Girolamo Morone che ne era stato infeudato nel 1513 e nel 1515.
Fatto così Gio. Giacomo Medici seguace del partito cesareo e vassallo dell’impero, ebbe dal Leyva ordine che a danno dei Veneziani entrasse nelle valli bergamasche finitime alla Valsassina, mentre l’esercito imperiale d’altra banda contro essi marciava. Intanto che il Medici per tale impresa radunava genti, mandò avanti con alcune compagnie scelte suo fratello Battista, il quale, attraversata la Valsassina, entrò in Valtaleggio occupandone tutte le terre fino a Zogno. Lasciato ivi il capitano Pellicione con cento soldati vecchi e alcune cerne per ridurre all’obbedienza i luoghi circonvicini, egli, col resto delle truppe e col capitano Porino, s’inoltrò nella valle Brembana. Il Leyva intanto, accomodate le cose colla veneta repubblica, era retrocesso senza darne avviso al
Medici. Cessati perciò i pericoli di guerra, i montanari di Taleggio e dei dintorni, tumultuariamente radunati in grosso numero, corsero sopra Zogno. Il Pellicione, che aveva con legnami fortificata la terra, non solamente arrestò l’impeto di quelle bande disordinate, ma le respinse, inseguì e disperse.
Era intenzione di Gio. Giacomo Medici, che andava ingrossando di gente, di accordar quelle valli e correre defilato a sorprendere il castello di Bergamo, quando avuto notizia del seguito accordo, mandò ordine ai suoi che si ritirassero. Riunitisi quindi Battista suo fratello, il Porino e il Pellicione per la stessa strada della Valsassina ritornarono a casa.

CAPITOLO VIII pag.232
Lo Sforza ritorna al possesso del ducato e fa tregua col Medici – Imprese di questi nella Valtellina – Disfatta dei Grigioni – Il duca entra in lega con essi – L’esercito grigione prende Morbegno – Entra in Valsassina per la valle di Troggia ed assalta la torre d’Introbbio – Bella difesa degli Introbbiesi - , per la quale i Reti abbandonano la Valsassina – Assediano Musso, ma ne sono respinti – I ducali assediano Lecco – Il Medici è sconfitto a Mandello – Suo stratagemma, col quale vince i ducali a Castello – Sua vittoria a Malgrate – Pace fra lo Sforza ed il Medici, per la quale questo cede al duca tutti i suoi dominj.

Sceso nel seguente anno 1529 l’imperatore Carlo V in Italia a cingersi il capo dell’imperial corona, venne ad accordi col pontefice Clemente VII, fra quali era pattuita la restituzione di tutto l’antico ducato di Milano a Francesco Sforza. Vedendosi allora il Medici privato dei suoi dominj, come appartenenti al duca, e vane essendo riescite le pratiche per ottenere da Carlo V la conferma di quella investitura, che già dal Leyva in suo nome gli era stata accordata, si dispose a sostenere colla forza la sua signoria. Prima però di tentare la sorte delle armi, poiché già le truppe ducali si avanzavano, spedì Leone Arrigoni d’Introbbio, suo agente o ambasciatore, al duca di Savoja ed al vescovo di Vercelli, perché interponessero i loro ufficj e ottenessero dal duca la bramata investitura. Lo Sforza, alieno dalla guerra, accettò il partito, e in pochi giorni si concertarono i patti, coi quali il duca concedeva a Gio. Giacomo Medici Lecco, le Tre-Pievi, la Valsassina e le adjacenze, ed obbligavasi di fornirgli ogni anno certa quantità di grano e di sale, e di riputare i soldati medicensi come quelli del duca. Dall’altro canto il Medici cedeva a questo Monguzzo e le terre attigue, e prometteva pagargli quarantamila scudi. Ma i capitani del Medeghino lo dissuadevano dall’accettar la condizione del pagamento del denaro. Onde, per trattar più comodamente l’affare, Battista Medici e il vescovo di Vercelli ottennero dal duca una tregua di sei mesi (1529).
Il marchese intanto, come quelli cui stava sommamente a cuore l’impresa della Valtellina, assoldava Giorgio Capucciano, duce di una schiera di Albanesi, e Cesare Maggi da Napoli, capitano di un drappello di Calabresi, ed iva arruolando genti dalle sponde lariane, da Lecco e dalla Valsassina. Venuta la primavera del 1531 mosse l’armata, ed a viva forza occupò Delebio difeso dagli alabardieri Grigioni e dai terrazzani. Procedendo quindi alacremente, ottenne Morbegno, che chiuse con bastite e palizzate.
Contro di lui veniva rattamente Giovanni di Marmora, governatore della valle, con quattromila soldati. Non lungi da Berbenno scontrossi con uno squadrone di cavalleria del Medici, il quale, benché animosamente pugnasse, soperchiato dal numero, dovette indietreggiare.
Il vincitore corse allora con gran furia sopra Morbegno, credendo di prenderlo, e ne diede l’assalto. Ma il Medici, prese due compagnie di cavalli che erano accampate fuori del borgo, piombò inopinatamente sul fianco dei nemici, e tanto li tribolò che si diedero alla fuga volgendo verso l’Adda. Il marchese, rapidamente inseguendoli, li sorpassò prima che all’Adda arrivassero, e, postati due cannoni sul ponte impedì loro il passo. Così, serrati i Grigioni fra il fiume ed i nostri, che eran esciti da Morbegno sotto il governo di Gabrio, altro fratello del marchese, interclusa ogni via di scampo, furono uccisi o nell’Adda affogati. Più di cinquecento uomini perdettero i Grigioni in questa disfatta, fra cui Dietegano Salice, Martino Traverso e lo stesso governatore Giovanni di Marmora.
Per questa sorprendente vittoria assai rallegrandosi il marchese volle darne notizia a tutte le potenze, cui credeva potesse tornare gradita, e specialmente al sommo pontefice per mezzo del suo fratello Agosto residente in Roma, all’imperatore per mezzo del protonotario Caracciolo, ed al senato veneziano per mezzo di Leone Arrigoni d’Introbbio, suo ambasciatore presso quella repubblica. Ma il duca, che mal volentieri vedeva quella vittoria, ancorchè spirato non fosse il termine della tregua, trasse le truppe contro il Medici, strinse alleanza coi Grigioni ed operò che l’imperatore richiamasse gli spagnuoli che militavano al soldo del Medici ed impedisse il passaggio pel Tirolo di quattromila Svizzeri per lui accordati dal conte d’Altemps suo cognato. Per lo che il marchese, assai dolendosi del tradimento dello Sforza, ne rese contezza ai principi e volendo perpetuarne la memoria fece nella sua zecca di Musso coniare una moneta col motto rupta fides.

Già i Grigioni eran calati nella Valtellina in numero di quattordicimila fra cavalli e fanti con molti pezzi di artiglieria. Porzione di questa numerosa falange marciò contro Morbegno e ne dispose l’assedio. Gabrio, che ne era alla custodia, stette alcuni dì, ma vedendo che i nemici si facevano sempre più forti e numerosi deliberò di evadere. Chiusi i terrazzani nelle cantine, perché non potessero dar segno alcuno ai nemici, di nottetempo tanto chetamente col presidio escì dal borgo, che fino al giorno i Grigioni non se ne avvidero. Corsero allora sulle tracce dei fuggitivi, ma giunti a Colico videro che già eran nelle acque veleggiando verso Musso. Una nave però, in cui eran quaranta Spagnuoli capitanati da Marco Grasso, mentre dirigevasi alla torre di Olonio per rinforzar quel presidio, ammelmò in quelle paludi talmente che diede campo ai Grigioni di andar loro sopra ed obbligarli alla resa. Il Grasso, condotto a Sondrio, fu alle forche appeso.
E poiché prospera vedevan la fortuna si accinsero i Grigioni ad altra impresa. Sapendo di quanto utile di uomini e di pecunia fosse al Medici la Valsassina popolata di molte grosse terre ed affezzionatissima al marchese, deliberarono d’invaderla. Intanto, così essendosi concertato, il duca spediva Gio. Battista Speziano, Lodovico Vistarino e Alessandro Gonzaga, marchese di Mantova, all’oppugnazione di Monguzzo e di Lecco. Da Morbegno spingendosi adunque i Grigioni nella valle del Bitto in numero di seimila combattenti capitanati da Giorgio Vestari con alcuni pezzi di artiglieria, calarono per quella della Troggia ad Introbbio.

Siede Introbbio quasi nel centro della Valsassina, là dove, chi assomigliar la volesse ad un braccio ricurvo, ne apparirebbe il gomito. Mediocremente spaziata gli si apre dinanzi una pianura a campi ed a prati, ed a tergo s’innalza un monte, già del ducato milanese colla veneta repubblica e coi Grigioni, or colla bergamasca provincia e sondriese, confine. Il torrente Acquaduro gli lambe il fianco a scirocco, e più discosto a maestro lo bagna la Troggia, tributarj amendue del maggior fiume, la Pioverna, che a libeccio discorre. Nel bel mezzo del borgo, rinforzata da propugnacoli e baluardi, sorgeva una quadrata e capace torre, che durata alle ingiurie dei secoli, tuttavia si ammira. Luogo d’importanza militare e commerciale era Introbbio a quei dì; conciossiaché, oltre all’esser strada a chi si portasse nei sopraddetti stati ed attiguo al difendevol posto del Ponte di Chiuso, vi risiedevan i magistrati di giustizia della valle, il collegio dei notaj e varie nobili e ricche famiglie, ed il commercio e l’industria vi fiorivano. Travagliato nondimeno negli antichi tempi da spessi depredamenti di eserciti e da incendj, e dalle moderne ingiurie straziato e casso, non potè per avventura aggiungere a quella prosperità, cui fin d’allora destinato pareva.
Era la torre guardata dai terrazzani, i quali al primo avviso che il retico esercito era presso, eransi colà dentro ritirati con quanta copia di camangiare e di munizioni poterono, disposti a farne fino all’ultimo sangue la difesa. Come i Grigioni entrati furono nella terra fecero la chiamata della torre. Risposero gl’intrepidi Introbbiesi non voler essi deporre le armi prima che non fossero conquistati Monguzzo, Lecco e Musso. Accampossi allora l’esercito intorno al paese e diede l’assalto alla torre, bersagliandola molto fieramente coi cannoni e colle moschetterie, sperando che non dovesse loro resistere per l’infinita loro prevalenza di numero; ma furono essi con molto loro danni ributtati. Il seguente giorno rinnovaron l’assalto e di nuovo ne furono respinti. Stettero così accampati molti giorni sempre tentandone la scalata; ma poiché videro, che per l’ardire e la pertinacia dei difensori non era lor dato di poterla prendere e che l’esercito veniva sempre decimando sì per le palle che sugli assalitori piovevano incessantemente dalle caditoje e balestriere del forte, e per le immani schegge di rupi che dalle eminenze rotolavan addosso a quelli che guardavano il blocco, abbandonarono quella impresa e si rivolsero verso Bellano, mettendo a saccomanno Vimogno, Primaluna, Cortabbio, Cortenuova e tutte le altre terre che pel cammino incontrarono.

Si drizzarono quindi verso le Tre-Pievi, da dove sloggiarono il Medici, benché strenuamente si difendesse, obbligandolo a rinchiudersi nel castello di Musso. Assediato dai Reti e dalle artiglierie continuamente battuto, era il castello a dure condizioni venuto. Ma il Medici seppe così bene di notte assalir da più bande i nemici, che fugati e spersi se ne tornarono in Valtellina (15 novembre 1531).
Intanto Alessandro Gonzaga colle truppe ducali aveva preso Monguzzo e si era portato all’espugnazione di Lecco. Dispose egli una lunga trinciera fra il borgo ed il ponte per segregare l’un presidio dall’altro. Mandò poi il capitano Corsino da Sant’Angelo con due compagnie e alcuni cannoni a Malgrate, perché impedisse ogni soccorso dalla parte del lago. Egli infine si pose a Castello che sovrasta al borgo e cominciò a batterlo con tre cannoni. Nel tempo istesso Lodovico Vistarino colla classe navale bersagliava talmente il ponte che le guardie dovettero ritirarsi nella parte posteriore di esso detta il Rivellino. Gabrio, che era al governo del borgo, mandò in soccorso del ponte Pedraccio da Erba con dieci soldati. Questo, passata a tutta foga la trincea nemica, entrò nel Rivellino; ma, vista avendo l’impossibilità di difendersi, con quei pochi sani che v’erano ritornò in Lecco. Gli altri si arresero al Vistarino, il quale munì il ponte e venne a Mandello per impedir alle navi medicensi la navigazione a Lecco.
Il marchese, dopo aver perseguitato i Grigioni, velocemente volò al soccorso di Lecco sbarcando nel tragitto diversi corpi a Dervio, Bellano, Varenna e Mandello, nei quali paesi trovavansi alcune guardie nemiche che sbaragliò.
Accresciuta poi la flottiglia da alcune navi lecchesi capitanate da Giovanni Agliati, mosse contro il Vistarino. Infelicemente però riescigli questa fazione, nella quale restò morto Gabrio, suo fratello, valorosissimo giovine, che portato a Lecco, ed ottenuta una tregua per fargli i funebri onori, fu sepolto nella chiesa di S. Giacomo di Castello.
Per tale sinistro accidente temendo il marchese di continuare la guerra, per la quale difettava di pecunia, tentò di far lega col re di Francia e ottener da lui qualche sovvenimento. Vane però essendogli riescite le pratiche, fece battere gran copia di monete di una lega di stagno e argento, a cui diede un esagerato valor nominale e le fece circolare colla promessa di redimerle alla fine della guerra. Tanto era il Medici dalle sue genti amato, che non solo accettarono quel metallo, ma vollero ritenerlo per sua memoria anche quando egli, mantenendo la promessa, volle riscattarlo.
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Ristaurato così d’animo e di forze rimise nelle acque il naviglio, e passando Mandello senza che il Vistarino se ne accorgesse, calò a Lecco, ove assaltò trecento Calabresi guidati da Cesare Maggi.
Avendo quindi udito che il Gonzaga se ne stava assai negligentemente in Castello, pensò di assaltarlo all’impensata. Scelti a tal uopo novantadue uomini, mise loro sopra l’armi una camicia con una banda bianca e fascetti rossi e con altra banda rossa a differenza delle ducali che le portavan tutte rosse, e sopra la camicia una cappa nera. Avuta voce dal Caravacca, famoso nell’ufficio di spia, del luogo preciso e del motto della sentinella, lasciò Lecco in guardia al Pellicione ed a Gabrio Serbelloni, scese nella fossa per uscir dalla parte del lago, e camminando con silenzio sotto le trincere giunse rimpetto al ponte. Ivi a caso cadde a terra un tedesco di grave armatura, al cui rumore la sentinella gridò; ma quei che guardavan il ponte non sentendo altro fracasso, poiché i medicensi bocconi a terra si eran gittati, se ne tornarono al riposo. Arrivato così a Castello impose ai suoi che cavassero la cappa nera, ad eccezione di due, coi quali avviossi verso la prima sentinella. Le diede la parola e, accostatosi, vibrolle una pugnalata nella gola. Appressossi poi di slancio al corpo di guardia e gettò una pugnata di bragia in viso al caporale che sonnacchioso se ne stava al fuoco. Alzato quindi un grido, entrarono gl’incamisciati, coi quali corse alla tenda del Gonzaga, che se ne stava a letto coll’amanza, e fecelo prigione. Le munizioni, le artiglierie, le bagaglie rimasero in potere dei nostri (1532).
Approfittando allora della propizia fortuna, mandò Cesare Maggi coi capitani Gio. Francesco d’Ischia, Cosco, Bigotto e Paolo d’Anversa ad assalir Malgrate difeso da buone milizie testè
accresciute di nuovi soldati guidati dal capitano Accursio da Lodi e di una porzione di quelli del Vistarino. Assaltati sul far dell’alba del 14 febbrajo, e per la parte del lago, e per quella di terra, brandiron i ducali le armi come meglio seppero, e con molta bravura sostennero il primo impeto dei medicensi. Ma come entrarono questi nella terra ed assaliti si videro da ogni parte, cominciarono a cagliare e andar in iscompiglio. Il prode Accursio con un drappello di valorosi ridotto in una casa disperatamente si difendeva, ma cinta la casa e bombardata, ricusando egli di depor l’armi sebben ferito, spirò schiacciato fra lo sfasciume delle rovinanti mura.
Non eransi frattanto intromesse dai fratelli del Medici, Battista e Gio. Angelo, che fu poi pontefice, le pratiche d’accordo, il quale venne finalmente stipulato e ratificato da ambe le parti colle condizioni seguenti: che il Medici rinunziasse Musso, Lecco, la Valsassina e le altre terre, e restituisse le artiglierie tolte ai Veneziani; che il duca fosse tenuto pagargli diecimila scudi d’oro al momento ed altri venticinquemila entro otto mesi, e dargli il marchesato di Melegnano coll’entrata di scudi mille, che liberi fossero ed il Medici ed i suoi fratelli, fautori e soldati da qualunque reato, e che ferme fossero tutte le sentenze da lui e dal suo consiglio emanate.

domenica 16 maggio 2010

Dresda e Lodi, crocevia di destini



  • Dal blog: Il Giardino delle Esperidi

    Il 10 maggio 1796 una colonna dell'armata francese, comandata da un giovane generale dal nome tipicamente italiano, Napoleone Bonaparte, sferrò l'attacco decisivo contro l'esercito austriaco arroccato a Lodi per respingere il contingente francese che il giorno prima aveva attraversato il Po a Piacenza, invadendo la Lombardia al di qua dell'Adda, allora sotto la dominazione austriaca. Era partito da Parigi sessanta giorni prima, l'11 marzo, appena due giorni dopo il matrimonio con Giuseppina Tascher, vedova Beauharnais, con un contingente di 38.000 uomini mal equipaggiati. La battaglia è storicamente nota come "battaglia al Ponte di Lodi". Nell'azione fulminea di quel giorno Napoleone rivelò in pieno le sue doti di grande stratega tattico. Mandando i suoi all'arrembaggio, i primi dei quali lanciati incontro a morte certa, non lasciò a Beaulieu il benchè minimo tempo per attendere i rinforzi sperati. Nonostante i 12 cannoni austriaci piazzati in difesa sul ponte, i francesi alla fine ebbero la meglio; grazie a coraggio, gagliardia e abnegazione, continuamente richiamati da Napoleone. Lasciarono però sul campo 350 morti. Gli austriaci, invece, dichiararono 153 morti e 1700 prigionieri in mano dei francesi. L'indomani l'Austria abbandonerà Milano. Quella sera del 10 maggio 1796 nasceva il mito di Napoleone, l'imperatore più potente d'Europa.
    Come scrisse egli stesso anni dopo "Fu solo alla sera di Lodi, che cominciai a ritenermi un uomo superiore e che nutrii l'ambizione di attuare grandi cose che fino a quel momento avevano trovato posto nella mia mente solo come un sogno fantastico".


    Ancor oggi i francesi attribuiscono grande importanza alla Battaglia del Ponte di Lodi , tanto che in numerosi loro comuni vi sono vie o piazze ad essa dedicate; è il caso della "rue du Pont de Lodi nel VI arrondissement di Parigi "; è anche forse il toponimo più diffuso in Francia.


    La meta era Milano, da dove, subito dopo la battaglia, era partita una delegazione per andare incontro al generale Bonaparte. Era capeggiata da Francesco Melzi d'Eril, cognato di Pietro Verri; ma è facile supporre che a capo di quella delegazione avrebbe voluto esserci lui, Pietro Verri, che però all'epoca era già un attempato sessantottenne, padre di sette figlie e marito di Vincenza, sorella del capo delegazione.

    Pietro Verri aveva combattuto a Dresda, per breve tempo, nel corso della Guerra dei sette anni. Si era arruolato volontario per sfuggire al destino che suo padre, il giureconsulto Gabriele Verri, aveva già deciso per lui; secondo i costumi del tempo, lo voleva magistrato come lui, e sposato con chi aveva scelto lui. Tornato a Milano, dopo la successiva parentesi viennese, i fratelli Pietro e Alessandro Verri avevano fondato l'Accademia dei Pugni per dibattere e approfondire di filosofia, economia e politica.

    Erano passati 30 anni, da quel maggio 1766, quando i sette della Società dei Pugni avevano deciso di por fine alla loro esaltante esperienza, e di cessare le pubblicazioni della loro rivista filosofico letteraria, Il Caffè. La pubblicazione era rimasta in vita solamente poco più di due anni: la gente non era allora ancora pronta per recepire le idee "rivoluzionarie" di "quei sette che ragionavano di filosofia, menandosi di pugni alla fine di quasi ogni riunione".

    Ma dopo trent'anni, qualcosa di quei concetti era stato assimilato dalla gente; la marcia trionfale di Napoleone verso Milano non sarebbe stata tale senza la scossa che quelle idee avevano comunque prodotto.

    Anche se la vera svolta che tutti si aspettavano da Napoleone non fu poi quella attesa (ordini religiosi soppressi, chiese spogliate, opere d'arte mandate in Francia e, in parte, ancor oggi non ancora restituite (*)...), Milano iniziò, nel bene e nel male, una rivoluzione urbanistica, tuttora in corso, che l'ha portata ad essere una delle metropoli più attraenti del mondo. Giova anche ricordare che Milano, sotto Napoleone, era tornata ad essere, dopo 14 secoli (vedere: Milano in età Romana) , la capitale di un forte regno unitario, il Regno d'Italia (1805-1814) che comprendeva regioni e province del nord est e del centro nord.

    Altra città fatale per Napoleone, e in tal caso quindi doppiamente fatale, è stata Dresda.

    In positivo:

    perchè Pietro Verri il suo "spianatore verso Milano", nel 1759, nel corso della Guerra dei Sette Anni, durante la quale, arruolatosi volontario col ruolo di ufficiale nello stato maggiore del generale Daun, aveva conosciuto il britannico Henry Lloyd, un avventuriero che comunque gli aveva instillato i germi per la passione agli studi economici, che poi Verri estese a quelli politici, durante il suo successivo breve soggiorno a Vienna;


    in negativo:

    per la battaglia che aveva segnato il destino finale di Napoleone.

    Nel post Vedute sono menzionate le quattro distruzioni subite da Dresda, città martire.

    Tra la guerra dei Sette Anni e la seconda guerra mondiale, che avevano entrambe raso al suolo la città, è da annoverare anche una vittoria di Pirro di Napoleone, conseguita nei dintorni della città. Nel 1813 un suo avanposto, al comando del generale Vandamme sconfisse la coalizione austro-russo-prussiana, ma la sua fu una vittoria effimera. La troppa fretta di avanzare, all'inseguimento dei nemici, gli fece commettere errori di valutazione nella consistenza della loro vera forza. Dopo tre giorni d'inseguimento questi ebbero la meglio nella Battaglia di Kulm. Un mese e mezzo più tardi, Napoleone fu sconfitto a Lipsia. Era il 19 ottobre 1813, iniziava il tramonto del mito napoleonico.

    Parafrasando il Poeta "fu vera gloria?..." anche in considerazione del fatto che se Lodi, che gli aveva subito tributato un monumento (anche se da Napoleone stesso fatto erigere), lo distrusse nel 1814? Dal sito ufficiale Città di Lodi, si legge infatti: "...In fondo al corridoio, cortiletto con lapidi, sculture, iscrizioni funerarie dell'antico cimitero ebraico, frammenti del monumento a Napoleone, già in piazza Maggiore (**), abbattuto nel 1814,
    probabilmente dopo appresa la notizia dell'esilio di Napoleone all'Elba (ndr).

    (**) ora Piazza della Vittoria, dal 1924.
    E' lecito supporre che il nuovo nome le sia stato attribuito per la vittoria dell'Italia nella prima guerra mondiale. ma sarebbe altrettanto motivo d'orgoglio, e non di nascondimento per i lodigiani, sapere e ricordare che il mito napoleonico, nel bene e nel male, è nato nella loro città. Io stesso sono stato frequentatore innamorato della loro città, e mi sarebbe bello sapere che Lodi ridedichi un monumento degno di tale nome a una tale grande personalità che, nel bene e nel male, ha tracciato pagine eterne di storia.
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    Questo l'itinerario suggerito dal sito Città di Lodi, per raggiungere il Ponte: "Si prende via Indipendenza a sinistra e si giunge a piazza Barzaghi nei pressi dell'attuale ponte sull'Adda (1864). Di fronte alla chiesa di S. Rocco, c'è la lapide commemorativa della battaglia qui combattuta e vinta da Napoleone contro gli austriaci (10 maggio 1796). Il ponte antico in legno fu distrutto nel 1859.
    (dal Sito ufficiale Città di Lodi: Itinerario turistico della città )
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    (*) Nota: Sulle opere d'arte trafugate dai francesi di Napoleone, trasportate in Francia, e non ancora restituite ai legittimi proprietari, dopo 200 anni, invito gli esperti d'arte di questo blog a scriverne un post dedicato.
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    Sopra, dall'alto in basso:
    - Il Ponte sull'Adda a Lodi, da Wikipedia.org
    - targa commemorativa "10 maggio 1796": foto dell'autore
    - Pietro Verri a Brera, foto di Innocenzo Fraccaroli
    - Napoleone Bonaparte attraversa le Alpi, dipinto di Jaques-Louis David, da Wikipedia:
    - Battaglia del Ponte di Lodi - dipinto di Giuseppe Pietro Bagetti (da Wikipedia)

sabato 27 marzo 2010

Popolazione e ambiente


Nelle pagine del blog di Marshall si è spesso affrontato lo spinoso tema della densità di popolazione. Uno dei migliori studi in materia l'aveva effettuato il blogger Pseudosauro. Da una tabella elaborata da Studenti.it , si evince, poi, che le aree con più di 100 abitanti a kmq sono da considerarsi ad alta densità abitativa.

Ho tra le mani I Luit, Foglio informativo di Lega Nord Padania - Sezione di Nova Milanese, nel quale, Davide Termine affronta il tema, descrivendovi i dati di una sua accurata analisi.
Nova Milanese , isola felice fino a pochi anni fa (ma che ancora potrebbe esserla), è un piccolo comune del nord milanese, ora in provincia di Monza e Brianza, di appena 5,81 kmq di estensione totale, con una polazione di 23.210 abitanti, e dunque una densità di popolazione di 3995 abitanti per kmq. Secondo lo studio di Davide Termine la popolazione dovrebbe crescere di altri 4.250, a seguito del nuovo PGT che prevede altri 425.000 mq di terreno sottratti al verde, 611 nuovi appartamenti, e, appunto, 4250 nuovi abitanti. La densità totale di popolazione diventerà così di 4.726 abitanti per kmq (27460 abit. diviso 5,81 kmq), un notevole numero di abitanti, sparsi su un'esigua estensione territoriale. E i servizi? si chiede l'articolista. E l'inquinamento atmosferico da CO2 - si chiede ancora - dove andrà a finire? I 4.250 nuovi abitanti previsti, porteranno inevitabilmente con se almeno 2800 automobili in più (la media nazionale è di due e anche tre auto per famiglia. Due auto per famiglia di tre persone; quindi 4.250 : 1,5 = 2833. Appunto!).
L'articolista fa il conto che le 2.800 auto in più, occuperanno 12.600 metri lineari di parcheggi (12,6 km di auto incolonnate da Nova a Milano).
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Nova, dicevo, era, e potrebbe esserla ancora, un'isola felice del nord Milanese. Situata a pochi km di distanza dai più bei laghi europei, lago di Como e lago Maggiore, dei quali ne ha scritta l'apoteosi Stendhal, nel romanzo semistorico La Certosa di Parma, gode ancora di un clima relativamente mite e sopportabile: non troppo caldo durante l'estate, nè troppo freddo durante l'inverno. La strada che la collega a Cinisello, storicamente ha fatto parte della Strada della Regina. Si narra che l'avesse fatta costruire la Regina Teodolinda per andare a pregare nel santuario fatto erigere a Lanzo d'Intelvi, cittadina con vista panoramica sui tre laghi: Como, Maggiore e Lugano. Si narra che la Strada della Regina partiva da Crescenzago, a nord est di Milano, dove i Longobardi avevano stabilito la loro capitale principale (e a Monza la residenza estiva, perchè gode di un clima migliore, con temperature estive assai più miti che non a Milano). Narra la leggenda che, partendo da Crescenzago, col suo seguito di dame di compagnia e cavalieri di scorta, dopo aver fatta una sosta di preghiera obbligata al santuario di Sant'Eusebio di Cinisello Balsamo, la comitiva della regina Teodolinda s'inoltrava poi nell'allora fitto bosco esistente tra Cinisello e Nova. Il bosco diventato in seguito zona di caccia preferita dai Visconti, signori di Milano, era esistito da quei tempi, e, prima ancora, dal tempo dei Romani. Ora non esiste più da decenni e al suo posto vi transita la superstrada Monza-Rho; il terreno, invece, è stato occupato da capannoni industriali, per quanto attiene l'area di Nova Milanese, mentre l'area sita in territorio comunale di Cinisello Balsamo, è stata salvata da cementificazione certa, mediante la coraggiosa iniziativa di costituire il Parco di Sant'Eusebio, facente parte, a pieno diritto, del più vasto Parco Grugnotorto Villoresi . Nell'area del parco di Sant'Eusebio, che è proprio a ridosso della romanica chiesetta, circa 20 anni fa vi ho visto piantare quantità enorme di fitte piantine. Ora, stanno per diventare il fitto bosco di un tempo. Peccato che Nova Milanese non abbia nel frattempo saputo fare altrettanto, almeno su uno dei due lati di quella che sta diventando l'arteria cittadina più importante: l'accesso allo svincolo della superstrada Monza-Rho.
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L'immagine sopra è tratta dalla Fotogallery del Parco Grugnotorto Villoresi

giovedì 11 marzo 2010

Piramide rovesciata e prospettiva sferoidale

Il presente post sarebbe stato più giusto averlo inserito in UMANISTICA, ma avendovi pubblicato di fresco il post "Navigli amore mio", che sta riscuotendo un certo interesse, ho preferito inserire questo in STORIA, anche se, in realtà, viene trattata STORIA DELL'ARTE.

Ho avuto richieste "in famiglia", e da "alcuni universitari del Tempo Libero" di chiarimenti in merito a "piramide rovesciata", "prospettiva sferoidale", e quant'altro. Cosa di meglio se non rispondere con il copia-incolla di una "lezione" persoalizzata che mi fece Josh del ( Giardino delle Esperidi, col seguente articolo (cliccare per leggere) .

Ecco il contenuto di quel commento, all'articolo del 19 marzo 2009:

"...la piramide rovesciata, o meglio avrei potuto dire il tronco di piramide rovesciata è la classica rappresentazione prospettica in pittura, la prospettiva rinascimentale dell'Alberti, con i punti di fuga, o come puoi vedere nelle declinazioni successive anche nelle 'quinte' architettoniche e teatrali dei dipinti del manierismo, del barocco, o del 1700-1800.
Sarà Cézanne nella 2nda metà 1800 il primo rivoluzionario a rifiutare il sistema di rappresentazione con la prospettiva classica, appunto senza 'il tronco di piramide rovesciata'. Cézanne utilizza un sistema calibrato su uno sferoide prospettico: gli elementi portanti dello sferoide immaginario sono curvilinei...quindi sostituiscono il tronco di piramide rovesciata dell'Alberti.

Sui 2 sistemi prospettici suddetti nella storia dell'arte:
per intendere la prospettiva classica a piramide tronca rovesciata cfr. per esempio questo quadro, una classica veduta di C tutta la pittura ha seguito questo codice di rappresentazione della prospettiva e della profondità, con questo senso dei punti di fuga.

Prendi ora Cézanne, 'le grandi bagnanti' del 1906

http://www.tbarte.com/sito%20normale/RUBRICA%20STORIA%20DELL%27ARTE/PAGINE%20RUBRICA/foto%20cezanne%20e%20il%20cubismo/cezannelebagnanti.jpg

visto? non c'è più lo stesso senso di profondità. Tutto è più vicino, meno 'sfondato', le linee sono curve (lo sferoide) e piatte.
La vera rottura Cèzanne la ottiene con l’utilizzo di un sistema prospettico basato sullo sferoide, i cui elementi sono curvilinei e che sostituisce la piramide tronca rovesciata di Alberti: C. si
richiama al principio dell’immagine del mondo proiettata sulla superficie curva
della retina. Nelle opere di C. e nelle successive di molti altri lo spazio dentro alla
sfera (o nella successiva moltiplicazione dei punti di vista e dei piani di visione in contemporanea come nel Cubismo) non potrà mai allontanarsi dall’osservatore quanto quello costruito in una piramide, il cui
vertice, mantenendo la stessa base, poteva allontanarsi all’infinito.

C'è anche un famoso testo di storia/critica che spiega molto meglio di me l'arte non solo a periodizzazioni o medaglioni, ma da un momento di svolta effettiva a un altro, intanto te lo segno:

Renato Barilli, "L'arte Contemporanea", Feltrinelli, MI 2003

Facendo una ricerca su Cèzanne, in un libro d'arte allegato a fascicoli a Corsera, anni fa, arrivato a Modigliani Giulio Carlo Argan scrive:
"Quando arriva a Parigi nel 1906 Modigliani capisce che tutta l'arte moderna nasce da Cèzanne. Lo scultore rumeno Brancusi,(...) gli ispira il culto della forma pura e chiusa, di cui la linea, da sola, plasma e definisce il volume. Si dedica dapprima alla scultura, solo più tardi si rende conto che la materia più adatta alla sua ricerca plastica è il colore. L'integrità di una forma che si dà in assoluto, e non nella relazione ad uno spazio capiente, è anche la qualità della scultura negra. Cèzanne e i negri erano i due estremi tra cui Picasso situava il problema storico dell'arte moderna."
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Il concetto dello "sferoide", da te spiegato, mi si è chiarito visionando il quadro di Cèzanne che mi hai consigliato "Donne al bagno" (altro titolo dello stesso quadro: "Le grandi Bagnanti"), ma anche quadri di altri pittori, che però cito solo a titolo accademico: Matisse - La gioia di vivere.

Per quanto riguarda l'altra "Pietra Miliare", tempo fa, un titolo del Corsera declamava Alberti come l'"inventore" di quello stile andato in voga per 4 o 5 secoli.

sabato 20 febbraio 2010

Emozioni di un giorno qualunque


Mattinata ricca di emozioni, questa. Dopo una nottata travagliata, ero riuscito a prender sonno all'alba, quando sono stato svegliato di soprassalto alle 8.20 da un urlo di stupore. Mia moglie, che solitamente dà poca importanza a questo genere di spettacoli della natura, aveva lanciato quell'urlo di stupore: "Vieni a vedere il Monte Rosa", mi ha detto.
In effetti, col suo candido color bianco luminescente sembra quasi voler dominare sulle Prealpi antistanti, che invece sono grigioscure/nere. In effetti, dal 9 dicembre dell'anno scorso, non avevo più visto il Monte Rosa in quella luminosa bellezza ( vedi qui ). Le due foto, sopra e di seguito, scattate stamattina alle 9.45 ne danno un'idea.
La mattinata è poi proseguita con altre emozioni: quelle che mi ha procurato Canale 5, con la trasmissione delle 8.5o del sabato: Il Loggione .
Come più volte raccontato all'amico Sarcastycon, le mie operazioni di risveglio, di vestizione, e di alzata dal letto, a causa del mio noto e non più celabile "acciacco", durano in media dalla mezz'ora all'ora, a seconda della giornata, poichè la mia, come quella di altri 56000 italiani è una malattia a carattere intermittente, nel senso che ci sono giornate che ti concede qualche forza in più, per farti fare in minor tempo ciò che solitamente richiede la "pazienza di Giobbe". La trasmissione del sabato, Il Loggione, mi è di grande compagnia durante tali operazioni, perchè la sua presenza mi fa pesare di meno l'acciacco. Un plauso, quindi, all'ideatore e conduttore del programma Vittorio Testa, che ha nel mio amico, Pietro, invalido, uno tra i suoi più grandi estimatori. Costui è un eccellente lirico, che conosce a memoria testi e musica di almeno dieci opere (ma è arrivato a conoscerne molte di più). E' un'enciclopedia vivente: basta chiedergli come fa la tal'aria, e lui subito la intona. Le ha tutte imparate a memoria durante le lunghe e periodiche degenze in ospedale. La lirica, come spesso mi racconta, è stata la sua salvezza, dopo un incidente stradale, che, per colpa altrui, lo aveva ridotto al coma profondo per 7 giorni e mezzo. La lirica gli ha ridato la "voglia di vivere", più di prima, più di quand'era arzillo e atletico; una voglia di vivere la vita che è bella a prescindere "comunque sia la condizione del vivere": sono le parole che spesso mi ripete. Tutto ciò lui l'ha trovato anche nella lirica, ecco perchè segue a puntino il programma (e poi ogni volta mi fa una sorta di interrogatorio). Quando non può vederlo in diretta se lo fa registrare, non sapendo che ora, tramite internet, Mediaset fornisce la possibilità di rivederle quando si voglia.
Parlo entusiasticamente del programma Il Loggione di oggi, perchè questa mattina mi ha condotto in due luoghi che fanno ormai parte del mio vissuto: Venezia e Arona, e mi ha condotto a perlustrare due eventi per me significativi: Il Barbiere di Siviglia, alla Fenice di Venezia e la mostra dedicata a De Chirico, ad Arona.
Di Arona, in particolare, ne scrivo oggi, mentre parlo del Monte Rosa, perchè essa si trova quasi a metà strada, in linea retta, tra me e il Monte Rosa; sembra quasi al di là di quel campanile che si intravvede dalla foto (cliccare sopra per ingrandirla). Ad Arona è in corso una mostra dedicata a Giorgio de Chirico, principale esponente della corrente artistica della pittura metafisica.
Alla mostra, in svolgimento a Villa Ponti di Arona, fino al 28 marzo, sono esposti 130 capolavori del maesto. La copertina del catalogo, che Vittorio Testa teneva gelosamente sotto braccio durante la trasmissione del Loggione, mentre parlava della mostra, raffigura una delle tante piazze italiane dipinte da De Chirico, nello stile metafisico. Quello stile che aveva per un certo periodo influenzato vari pittori italiani dell'epoca, tra i quali Vittorio Viviani. Tra le opere di Viviani, celebre pittore di Nova Milanese, che mi degnò della sua entusiastica amicizia, ve ne sono un discreto numero catalogate nel suo periodo Metafisico. Tra le sue più importanti opere di quel periodo, ed anche tra le sue più belle, vi è senza dubbio una stupenda piazza della Basilica di Desio, dove essa è immortalata sullo sfondo. Dipinta negli anni trenta, ora di proprietà privata, costituisce la copertina di una delle sue più ben fatte biografie, risalente agli anni '80, quando il pittore era ancora in operosa vitalità.

Dulcis in fundo: la lirica.
Trasmesso da La Fenice di Venezia, Il Barbiere di Siviglia è l'opera che forse più di tutte ha contribuito alla mia passione per la lirica. La celebre aria di Figaro, conteso e richiesto da tutti, l'ha oggi magistralmente cantata il baritono Christian Senn . Quand'ero piccolo la sentivo invece spesso cantare da un mio zio, il quale, se non fosse stato per la sua innata timidezza, sarebbe oggi annoverato tra i grandi interpreti della lirica italiana.
Le due foto sopra, sono dell'autore, e sono state scattate alle 9.45 di oggi.
La foto sotto è di www.fenice.org cui viene chiesto il permesso a pubblicare.
All'amico Pietro è stata richiesta l'autorizzazione a pubblicare la sua storia, il cui incidente è avvenuto nel 1985.

giovedì 11 febbraio 2010

Si moriva per una mela. Memorie dal lager di Tito.

di Matteo Sacchi

Rossi Kobau fu prigioniero a Borovnica per due anni. E racconta: "Tutti sapevano delle foibe, nessuno parlava". Ottantanove militari sono scomparsi in un buco del terreno distrutto con l'esplosivo

Lionello Rossi Kobau, classe 1926, abita in una bella casa milanese vicina ai navigli. Nello sguardo intenso, ma con un guizzo di ironia, gli resta l’aria del giovane che fu, del soldato ragazzino che si arruolò a diciassette anni nel battaglione Benito Mussolini dei Bersaglieri della Rsi. Sì, Lionello Rossi Kobau ha scelto di combattere dalla parte sbagliata, lo ha fatto in un’età che per definizione non è ancora quella della ragione ma quella del cuore, della rabbia, a volte dell’orgoglio. A tanti anni di distanza, seduto nel suo salotto dove lo costringono le sue anche malandate, quella decisione la racconta così: «Quando si parla dell’8 settembre e delle scelte che hanno fatto le persone non si ragiona mai a partire dai luoghi. Io ero nato e vissuto a Monfalcone. E in Venezia Giulia più che scegliere tra un’ideologia o l’altra si trattava di scegliere se restare italiani o accettare l’idea di un’occupazione slava. Io ho scelto di essere italiano, il resto è stata una conseguenza... Questo lo scoprirono, dolorosamente, anche coloro che scelsero di essere partigiani ma non vollero piegarsi alla volontà di occupazione dei titini». E proprio questa scelta di italianità ha portato Lionello Rossi Kobau a essere uno dei pochi testimoni superstiti degli atroci campi di concentramento jugoslavi tra cui quello di Borovnica. Campi in cui finirono non solo i «fascisti» della Rsi, non solo i poliziotti o i carabinieri, ma anche civili, partigiani, chiunque avesse un cognome italiano. «Quello che è capitato a me e tanti altri - spiega Rossi Kobau - io l’ho messo subito per iscritto. Ogni volta che trovavo un pezzo di carta prendevo appunti. Ma poi per anni non ho avuto nemmeno il coraggio di pensarci. Ho trasformato tutto in un libro solo nel 2001 (Prigioniero di Tito 1945-1946, Mursia, euro 12,40, ndr). Prima in pochi avrebbero avuto voglia di ascoltare la mia storia. E del resto tornare a pensarci mi ha prodotto una grande sofferenza, anch’io per anni ho preferito non guardare indietro...». E ascoltando il suo racconto questo desiderio appare più che comprensibile. «Il mio battaglione si è arreso ai titini il 30 aprile del 1945. Ci avevano promesso l’onore delle armi e un rapido rientro in patria. Noi ci abbiamo creduto: avevamo operato nella valle del Baccia, dove con la popolazione slovena avevamo stabilito rapporti più che cordiali nonostante la necessità di scontrarci con i partigiani che spesso erano loro parenti. Ma già il 3 maggio abbiamo capito di esserci sbagliati. Ci hanno portato a Tolmino, dove sono iniziati degli interrogatori brutali. Quello che potevi fare era solo cercare di scegliere la fila che portava alla stanza da cui sentivi urlare di meno... Cercavano di farci confessare qualcosa, qualsiasi cosa... Ma non erano gli sloveni con cui avevamo avuto a che fare a comportarsi così. Anzi, molte persone vennero dalla Valle del Baccia a portarci da mangiare.

Mancando delle accuse di qualsiasi tipo i partigiani venuti da fuori dovettero inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa. E così uccisero a caso, portarono via 89 di noi. In parte li impiccarono, in parte li buttarono in una foiba, la fecero saltare con loro dentro...». Ma anche per i superstiti iniziò un’odissea tremenda. «Fummo portati al campo di Borovnica e lasciati morire di fame. In pochi giorni mangiammo tutta l’erba... Quando nel campo non ci fu più niente di verde qualcuno iniziò ad allungare le mani fuori dal recinto, i ragazzini che stavano sulle torrette gli sparavano addosso... E a noi toccava prendere i cadaveri e buttarli nelle latrine o nei canali vicini al campo...». E se gli abitanti di Borovnica, impietositi, cercavano di aiutare gli italiani, questo a volte era più un male che un bene: «Ci sono miei compagni di prigionia che sono stati appesi al palo con il filo spinato perché sono stati trovati con una mela. E dopo ore di tortura sono stati fucilati. Di alcuni ricordo i nomi: Fernando Ricchetti, Giuseppe Spanò... Di altri no, come un civile a cui venne spezzata la schiena...». Questa feroce macelleria con alti e bassi dura, per chi sopravvive e non viene rimpatriato prima, sino al 1946.

«E lo ribadisco: per finire in questi campi bastava essere italiani, ho incontrato lì anche un ragazzo ebreo che si chiamava Davide e che aveva la sfortuna di parlare italiano. Ho incrociato anche partigiani della Garibaldi buttati lì con noi, uno che si chiamava Mario mi diceva: “Ma ti pare giusto che sia qui con te che la guerra l’hai persa?”. Io non sapevo cosa dirgli, a quel punto eravamo tutti solo poveri italiani. Spero si sia salvato». E la cosa più grave, secondo Lionello Rossi Kobau, è che di quei prigionieri non importava nulla a nessuno: «In Italia si sapeva, sia per le testimonianze di alcuni dei primi che tornarono sia per le denunce del vescovo di Trieste... Sarebbe bastato mandare del cibo per maiali e un po’ di pressione diplomatica degli alleati per salvare molti dalla morte per fame... Gli jugoslavi non avevano quasi più nulla e quel poco non lo davano certo a noi... Tutti però erano troppo impegnati a suonare il violino a Tito per staccarlo da Stalin. Devo anche dire che a Borovnica c’era un commissario politico che si chiamava Anton Markovic e veniva da Dobrovo. Contestò molti dei soprusi che subivamo, litigò furiosamente con i comandanti del campo ma venne ignorato sistematicamente. Fu comunque uno dei pochi che cercò di far qualcosa...».

Ma ci sono anche eventi più recenti che fanno soffrire questo reduce da un’esperienza così terribile. «Ritrovare i corpi dei morti nel campo do Borovnica è quasi impossibile. I bersaglieri che invece vennero uccisi e infoibati vicino a Tolmino quelli sarebbe possibile ritrovarli. Ci provo dal 2006 anche grazie all’aiuto di alcuni abitanti. Ma le autorità slovene danno un aiuto formale e molto poco sostanziale. Si limitano a dire: voi diteci dove scavare e noi scaviamo. Quanto al Commissariato generale italiano per le onoranze ai caduti di guerra, i suoi vertici cambiano spesso e questo rende il lavoro discontinuo e sino a ora infruttuoso. E io divento sempre più vecchio e più stanco... Nel 2008 mi sono fatto accompagnare a Tolmino da mio figlio (il noto comico Paolo Rossi, ndr). Abbiamo idee politiche diverse, ma in questa vicenda mi ha sempre aiutato. Quando ha visto il paese mi ha detto: “Qui è pieno di turisti che vanno a pesca, sembra la Svizzera, non credo vogliano ricordare quel passato, non lo vogliono un cippo. Forse nemmeno per i loro...”. Temo avesse ragione, anche se io non voglio arrendermi».

mercoledì 10 febbraio 2010

10 febbraio il giorno della memoria

Tra i figli dell’esodo c’è anche Marchionne
di Fausto Biloslavo


La madre del manager Fiat costretta ad abbandonare il suo paese dopo una serie di tragiche vessazioni. La pulizia etnica era cominciata nel 1943. E la famiglia fu duramente colpita



Zucconi - «Sergio me lo ricordo fin da piccolo, quando mi aiutava a pascolare i manzi. Il nonno non l’ha mai conosciuto, perché è stato infoibato dai partigiani di Tito. Con sua mamma, Maria, sono legata da sempre. L’ho sentita l’ultima volta il 17 gennaio, quando ha compiuto 84 anni, per farle gli auguri. Con la sorella Anna sono andate esuli in Canada, ma non ci hanno mai dimenticato». Parla in dialetto veneto, Maria Zuccon, la zia acquisita di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat. Si sapeva delle sue origini abruzzesi e della vita da adolescente in Canada, ma nelle vene del supermanager scorre anche sangue istriano. Non solo: la famiglia materna di Marchionne ha provato sulla sua pelle la tragedia delle foibe e dell’esodo.



Solo un fratello, Martino, non se ne è andato dopo la guerra sposando Maria, che ci accoglie nel «fogoler» di una tipica casa istriana. «La mamma di Sergio si chiama anche Maria ed è nata proprio in questa casa» spiega la zia del supermanager. Occhi azzurri, capelli color argento e scialle sulle spalle, lei è rimasta a Zucconi, il nome in italiano del villaggio di poche case preso dalla famiglia.. «Un tempo eravamo un centinaio, ma adesso siamo al massimo 40» sospira la signora Maria. Ad una manciata di chilometri da Pola, tutta quest’area con una forte presenza italiana fino al dopoguerra si è svuotata con l’esodo. Prima ancora, a causa dell’armistizio del 1943, le bande partigiane hanno fatto la prova generale della pulizia etnica. E la famiglia materna di Marchionne è finita nel mirino.



«Giacomo, il nonno di Sergio, era un gran lavoratore. A Carnizza, tre chilometri da qui, aveva messo in piedi un negozio sotto casa» racconta zia Maria. «Non ha mai fatto del male a nessuno» ribadisce la signora, classe 1925. Nel Ventennio chi voleva la licenza commerciale doveva automaticamente iscriversi al partito fascista. La zia di Marchionne ripete, però, «che Giacomo non ha mai portato la camicia nera». L’8 settembre 1943 il regio esercito si sbanda. In Istria si crea un pericoloso vuoto di potere. I partigiani di Tito spuntano dai boschi e vanno a prendere i «nemici del popolo».

«Sono andati di notte a casa sua legandogli i polsi con il filo di ferro. Nel paese ne hanno presi sei. Un ingegnere, che aveva fatto solo del bene, ma pure il macellaio - spiega la testimone -. Nella banda c’era un capo comunista ideologizzato, ma in realtà chi aveva debiti con il negozio di Giacomo ne ha approfittato per farlo fuori».



Gli ostaggi spariscono nel nulla. «Anna, la sorella di Maria che adesso è con lei in Canada, non si dava pace. Voleva salvare il papà. Qualcuno li aveva visti portati via in fila indiana», racconta Maria. Il fratello Giuseppe, appena tornato a casa dopo il ribaltone dell’8 settembre, si è pure lanciato nelle ricerche. Purtroppo è finito in un rastrellamento dei tedeschi, che stavano riconquistando l’Istria con il ferro e con il fuoco. Scambiato per un partigiano o un disertore l’hanno passato per le armi.



«Ma Anna non si è data per vinta. Il padre, assieme ad altri, era stato buttato nella foiba di Trlji, a cinque chilometri da questa casa. È andata a Pola e ha convinto i pompieri a recuperare le salme» spiega zia Maria. «Sull’orlo della foiba, quando tiravano fuori i corpi tumefatti Anna diceva non è lui, non è lui... - ricorda la signora Zuccon -. Poi ha avuto un sussulto davanti ad un corpo irriconoscibile. Questo è mio padre. L’ha riconosciuto dai bottoni della giacca che lei stessa aveva cucito».



Il nonno materno di Sergio Marchionne è finito in foiba, ma l’Istria non ha portato solo disgrazie. I suoi genitori si sono conosciuti proprio a Carnizza. Il padre Concezio prestava servizio nella stazione dei carabinieri. La mamma Maria si è subito innamorata del giovane in divisa dell’Abruzzo. Concezio è stato trasferito prima in Slovenia e poi a Gorizia «a “difendere” i confini dall’invasione comunista» scrive Marco Gregoretti nell’Uomo dal maglione nero, un libretto di successo sull’ad Fiat. La futura consorte va dai parenti del marito in Italia scampando alla pulizia etnica dei titini. La sorella Anna vorrebbe raggiungerla. Alla fine della Seconda guerra mondiale la situazione precipita. I titini riprendono la pulizia etnica lasciata a metà nel 1943. Di fronte alle violenze 350mila italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia scappano verso la madre patria. «Un giorno Anna ha preso la sua bicicletta, con solo due borse in mano. È andata a Pola per imbarcarsi sull'ultimo piroscafo per l’Italia» racconta con emozione zia Maria.



I genitori di Sergio si sposano dopo la guerra e vanno a vivere a Chieti dove nel 1952 nasce il futuro supermanager. L’esule Anna Zuccon va per prima in Canada, seguita dalla famiglia Marchionne, che vuole far studiare meglio il figlio. In Istria restano gli zii Martino e Maria. «Sono venuti a trovarmi per la prima volta dopo la guerra quando Sergio aveva 3 anni. Non c’era né luce né acqua corrente. Sergio lo lavavamo nella “mastela” con l’acqua della cisterna assieme ai miei figli» racconta sorridendo Maria. Il giovane Marchionne si diverte durante le vacanze in Istria. «Mi aiutava a portare i manzi. Gli piaceva usare il frustino per indirizzarli e non voleva mollarlo neppure quando andava a dormire. Da più grande mi diceva sempre: zia se continui a lavorare così nei campi andrai a finire al camposanto».

Dalla Fiat fanno sapere che l’amministratore delegato «da bambino sentiva spesso i racconti della mamma e della zia profughe dall’Istria». Nel libro di Gregoretti, un cugino abruzzese ha fatto notare che sul polso del suo inconfondibile maglione Marchionne si è fatto ricamare un piccolo stemma tricolore. Con l’ascesa di Marchionne i legami con i parenti rimasti in Istria si sono rarefatti, ma non cancellati. «Sergio è venuto anche dalla Svizzera con sua moglie ed i due figli per farceli conoscere» racconta Maria. «Adesso lo vedo in televisione. Dicono che sia uno dei manager più importanti al mondo - spiega zia Maria -. Ma per me rimarrà il ragazzino con i lineamenti della mamma. Sergio è una persona semplice e cara che tengo sempre nel mio cuore».


post inviato da Luchy


LA GIORNATA DEL 10 FEBBRAIO

La commemorazione del 10 febbraio ricorda una delle più grandi tragedie italiane di sempre, quella delle Foibe e dell’Esodo dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia, dell’uccisione di 30.000 italiani, della cacciata di altri 350.000, e di altri 50.000 ancora rinchiusi nei gulag jugoslavi. Tutto questo avvenne ad opera degli slavo-comunisti di Tito, con la cooperazione fattiva o l’ignavia dei comunisti italiani del PCI.
La data prescelta è quella del Trattato di pace di Parigi, che nel 1947 sancì la perdita dei territori italiani della Dalmazia, di Fiume, dell’Istria, del Quarnaro
Le foibe hanno rappresentato un’autentica pulizia etnica progettata con lucidità e con grande anticipo dal governo di Belgrado, dal suo dittatore, il “maresciallo” Tito, dal suo ministro degli Esteri, Kardelj, e da un altro ministro ed amico personale di Tito, Vasa Cubrilovic, autori di due veri e propri manuali che contenevano le istruzioni per compiere genocidi ai danni delle popolazioni “etnodiverse” presenti nella stato socialista jugoslavo.
L’invasione delle terre italiane, ed il successivo genocidio, furono favoriti dai comunisti italiani. La brigata partigiana “Osoppo”, costituita da partigiani “bianchi” cattolici e favorevoli alla difesa dei confini nazionali dall’invasione, fu sterminata col tradimento e l’inganno da partigiani comunisti. Togliatti ed il PCI si accordarono con Tito per la cessione di tutte le terre italiane sino al Tagliamento, obbedendo certamente ad ordini di Stalin ed aspirando ad estendere il più possibile i domini del “socialismo reale”. Gli anti-fascisti italiani non comunisti furono emarginati dal PCI, poi uccisi per primi dagli slavo-comunisti. Il PCI orchestrò poi una campagna stampa contro gli esuli, e difese in ogni modo in parlamento ed in campo internazionale gli interessi e le ambizioni territoriali del dittatore Tito.
Gli Italiani vittime delle Foibe furono di ogni idea politica, di ogni classe sociale, di ogni età: fascisti ed anti-fascisti, ricchi e poveri, religiosi ed atei, uomini e donne, vecchi, adulti, bambini. Gli Italiani, dopo aver subito gravissime sevizie (umiliazioni, percosse, stupri, evirazioni; alle donne incinte venivano squarciati i ventri e i feti erano infilzati come trofei su dei pali), venivano legati con del filo spinato gli uni agli altri, e messi in fila. Il capofila veniva poi posto all’imboccatura di una foiba quindi veniva fucilato oppure scaraventato nel vuoto, trascinando con sé gli altri a lui legati. Il rituale era completato frequentemente da un cane nero gettato ancor vivo nella foiba, in osservanza ad una superstizione del folklore balcanico, secondo cui esso avrebbe impedito alle vittime di “ritornare” per vendicarsi.
Un calcolo esatto e completo del numero delle vittime è impossibile, perché moltissimi corpi furono gettati in mare, o seppelliti in foibe rimaste ignote, o rimasti in Jugoslavia nei cimiteri dei gulag. Tuttavia, la cifra più probabile si attesta attorno ai 30.000. Tale somma la si può ottenere dal numero di abitanti italiani presenti nei territori invasi dagli slavo-comunisti e poi scomparsi senza lasciare tracce. Inoltre, la stima del numero di vittime presenti nelle foibe accertate (almeno 67), sommata a quella degli italiani morti nei gulag di Tito, ed ai resoconti di altre uccisioni consente di giungere all’incirca alla stessa cifra, che deve quindi ritenersi quella più verosimile.
Gli esuli furono circa 350.000, e 50.000 gli Italiani che trascorsero molti anni nei campi di concentramento jugoslavi: Borovnica, Skofja Loka, Osseh, e ancora Stara Gradiska, Siska, e poi Goh Otok, l’Isola Calva. Alcuni vi rimasero sino agli anni Sessanta. Fra gli italiani rinchiusi nei gulag di Tito, alcuni erano dei superstiti dei lager tedeschi e, per loro testimonianza, i campi comunisti erano molto peggiori di quelli nazisti. Sui 5.000 Italiani deportati a Goli Otok, 4.000 morirono.
Dopo tutti questi eventi, per 50 anni calò un intenzionale silenzio su ciò che era accaduto. Gli esuli furono emarginati e dimenticati, così come la loro storia. Lo studioso Gianni Oliva nel suo libro “Foibe” ha scritto: «A sessant’anni dagli avvenimenti delle foibe e degli infoibati restano ancora una strage negata esclusa dalla coscienza collettiva della nazione […]. Con legge 92/2004 l’Italia ha riconosciuto ed ha istituito il 10 febbraio come il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati. Lo scopo della legge è stato quello di ridare quella dignità e riconoscimento, mancato per lunghi anni, a chi fu tragicamente ucciso, ma anche a tutti i sopravvissuti che furono costretti ad abbandonare le loro case per fuggire dai massacri per mantenere la propria identità di essere italiano.”
Questa memoria continua ad essere purtroppo ancora oggi osteggiata da chi, del tutto assurdamente, nega o giustifica quello che è avvenuto. Pertanto, dinanzi a simili fatti, ed ai ricorrenti e sbagliati tentativi di nasconderli, è un imperativo morale la memoria delle Foibe e dell’Esodo.
IL suo ricordo dovrebbe appartenere al patrimonio collettivo della Nazione italiana, senza distinzione di partito o di idee politiche.
E' un atto di giustizia verso i morti ed i profughi, ma è anche un monito a tutti noi, perché quel che è accaduto in passato può avvenire ancora in futuro.