sabato 20 febbraio 2010

Emozioni di un giorno qualunque


Mattinata ricca di emozioni, questa. Dopo una nottata travagliata, ero riuscito a prender sonno all'alba, quando sono stato svegliato di soprassalto alle 8.20 da un urlo di stupore. Mia moglie, che solitamente dà poca importanza a questo genere di spettacoli della natura, aveva lanciato quell'urlo di stupore: "Vieni a vedere il Monte Rosa", mi ha detto.
In effetti, col suo candido color bianco luminescente sembra quasi voler dominare sulle Prealpi antistanti, che invece sono grigioscure/nere. In effetti, dal 9 dicembre dell'anno scorso, non avevo più visto il Monte Rosa in quella luminosa bellezza ( vedi qui ). Le due foto, sopra e di seguito, scattate stamattina alle 9.45 ne danno un'idea.
La mattinata è poi proseguita con altre emozioni: quelle che mi ha procurato Canale 5, con la trasmissione delle 8.5o del sabato: Il Loggione .
Come più volte raccontato all'amico Sarcastycon, le mie operazioni di risveglio, di vestizione, e di alzata dal letto, a causa del mio noto e non più celabile "acciacco", durano in media dalla mezz'ora all'ora, a seconda della giornata, poichè la mia, come quella di altri 56000 italiani è una malattia a carattere intermittente, nel senso che ci sono giornate che ti concede qualche forza in più, per farti fare in minor tempo ciò che solitamente richiede la "pazienza di Giobbe". La trasmissione del sabato, Il Loggione, mi è di grande compagnia durante tali operazioni, perchè la sua presenza mi fa pesare di meno l'acciacco. Un plauso, quindi, all'ideatore e conduttore del programma Vittorio Testa, che ha nel mio amico, Pietro, invalido, uno tra i suoi più grandi estimatori. Costui è un eccellente lirico, che conosce a memoria testi e musica di almeno dieci opere (ma è arrivato a conoscerne molte di più). E' un'enciclopedia vivente: basta chiedergli come fa la tal'aria, e lui subito la intona. Le ha tutte imparate a memoria durante le lunghe e periodiche degenze in ospedale. La lirica, come spesso mi racconta, è stata la sua salvezza, dopo un incidente stradale, che, per colpa altrui, lo aveva ridotto al coma profondo per 7 giorni e mezzo. La lirica gli ha ridato la "voglia di vivere", più di prima, più di quand'era arzillo e atletico; una voglia di vivere la vita che è bella a prescindere "comunque sia la condizione del vivere": sono le parole che spesso mi ripete. Tutto ciò lui l'ha trovato anche nella lirica, ecco perchè segue a puntino il programma (e poi ogni volta mi fa una sorta di interrogatorio). Quando non può vederlo in diretta se lo fa registrare, non sapendo che ora, tramite internet, Mediaset fornisce la possibilità di rivederle quando si voglia.
Parlo entusiasticamente del programma Il Loggione di oggi, perchè questa mattina mi ha condotto in due luoghi che fanno ormai parte del mio vissuto: Venezia e Arona, e mi ha condotto a perlustrare due eventi per me significativi: Il Barbiere di Siviglia, alla Fenice di Venezia e la mostra dedicata a De Chirico, ad Arona.
Di Arona, in particolare, ne scrivo oggi, mentre parlo del Monte Rosa, perchè essa si trova quasi a metà strada, in linea retta, tra me e il Monte Rosa; sembra quasi al di là di quel campanile che si intravvede dalla foto (cliccare sopra per ingrandirla). Ad Arona è in corso una mostra dedicata a Giorgio de Chirico, principale esponente della corrente artistica della pittura metafisica.
Alla mostra, in svolgimento a Villa Ponti di Arona, fino al 28 marzo, sono esposti 130 capolavori del maesto. La copertina del catalogo, che Vittorio Testa teneva gelosamente sotto braccio durante la trasmissione del Loggione, mentre parlava della mostra, raffigura una delle tante piazze italiane dipinte da De Chirico, nello stile metafisico. Quello stile che aveva per un certo periodo influenzato vari pittori italiani dell'epoca, tra i quali Vittorio Viviani. Tra le opere di Viviani, celebre pittore di Nova Milanese, che mi degnò della sua entusiastica amicizia, ve ne sono un discreto numero catalogate nel suo periodo Metafisico. Tra le sue più importanti opere di quel periodo, ed anche tra le sue più belle, vi è senza dubbio una stupenda piazza della Basilica di Desio, dove essa è immortalata sullo sfondo. Dipinta negli anni trenta, ora di proprietà privata, costituisce la copertina di una delle sue più ben fatte biografie, risalente agli anni '80, quando il pittore era ancora in operosa vitalità.

Dulcis in fundo: la lirica.
Trasmesso da La Fenice di Venezia, Il Barbiere di Siviglia è l'opera che forse più di tutte ha contribuito alla mia passione per la lirica. La celebre aria di Figaro, conteso e richiesto da tutti, l'ha oggi magistralmente cantata il baritono Christian Senn . Quand'ero piccolo la sentivo invece spesso cantare da un mio zio, il quale, se non fosse stato per la sua innata timidezza, sarebbe oggi annoverato tra i grandi interpreti della lirica italiana.
Le due foto sopra, sono dell'autore, e sono state scattate alle 9.45 di oggi.
La foto sotto è di www.fenice.org cui viene chiesto il permesso a pubblicare.
All'amico Pietro è stata richiesta l'autorizzazione a pubblicare la sua storia, il cui incidente è avvenuto nel 1985.

giovedì 11 febbraio 2010

Si moriva per una mela. Memorie dal lager di Tito.

di Matteo Sacchi

Rossi Kobau fu prigioniero a Borovnica per due anni. E racconta: "Tutti sapevano delle foibe, nessuno parlava". Ottantanove militari sono scomparsi in un buco del terreno distrutto con l'esplosivo

Lionello Rossi Kobau, classe 1926, abita in una bella casa milanese vicina ai navigli. Nello sguardo intenso, ma con un guizzo di ironia, gli resta l’aria del giovane che fu, del soldato ragazzino che si arruolò a diciassette anni nel battaglione Benito Mussolini dei Bersaglieri della Rsi. Sì, Lionello Rossi Kobau ha scelto di combattere dalla parte sbagliata, lo ha fatto in un’età che per definizione non è ancora quella della ragione ma quella del cuore, della rabbia, a volte dell’orgoglio. A tanti anni di distanza, seduto nel suo salotto dove lo costringono le sue anche malandate, quella decisione la racconta così: «Quando si parla dell’8 settembre e delle scelte che hanno fatto le persone non si ragiona mai a partire dai luoghi. Io ero nato e vissuto a Monfalcone. E in Venezia Giulia più che scegliere tra un’ideologia o l’altra si trattava di scegliere se restare italiani o accettare l’idea di un’occupazione slava. Io ho scelto di essere italiano, il resto è stata una conseguenza... Questo lo scoprirono, dolorosamente, anche coloro che scelsero di essere partigiani ma non vollero piegarsi alla volontà di occupazione dei titini». E proprio questa scelta di italianità ha portato Lionello Rossi Kobau a essere uno dei pochi testimoni superstiti degli atroci campi di concentramento jugoslavi tra cui quello di Borovnica. Campi in cui finirono non solo i «fascisti» della Rsi, non solo i poliziotti o i carabinieri, ma anche civili, partigiani, chiunque avesse un cognome italiano. «Quello che è capitato a me e tanti altri - spiega Rossi Kobau - io l’ho messo subito per iscritto. Ogni volta che trovavo un pezzo di carta prendevo appunti. Ma poi per anni non ho avuto nemmeno il coraggio di pensarci. Ho trasformato tutto in un libro solo nel 2001 (Prigioniero di Tito 1945-1946, Mursia, euro 12,40, ndr). Prima in pochi avrebbero avuto voglia di ascoltare la mia storia. E del resto tornare a pensarci mi ha prodotto una grande sofferenza, anch’io per anni ho preferito non guardare indietro...». E ascoltando il suo racconto questo desiderio appare più che comprensibile. «Il mio battaglione si è arreso ai titini il 30 aprile del 1945. Ci avevano promesso l’onore delle armi e un rapido rientro in patria. Noi ci abbiamo creduto: avevamo operato nella valle del Baccia, dove con la popolazione slovena avevamo stabilito rapporti più che cordiali nonostante la necessità di scontrarci con i partigiani che spesso erano loro parenti. Ma già il 3 maggio abbiamo capito di esserci sbagliati. Ci hanno portato a Tolmino, dove sono iniziati degli interrogatori brutali. Quello che potevi fare era solo cercare di scegliere la fila che portava alla stanza da cui sentivi urlare di meno... Cercavano di farci confessare qualcosa, qualsiasi cosa... Ma non erano gli sloveni con cui avevamo avuto a che fare a comportarsi così. Anzi, molte persone vennero dalla Valle del Baccia a portarci da mangiare.

Mancando delle accuse di qualsiasi tipo i partigiani venuti da fuori dovettero inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa. E così uccisero a caso, portarono via 89 di noi. In parte li impiccarono, in parte li buttarono in una foiba, la fecero saltare con loro dentro...». Ma anche per i superstiti iniziò un’odissea tremenda. «Fummo portati al campo di Borovnica e lasciati morire di fame. In pochi giorni mangiammo tutta l’erba... Quando nel campo non ci fu più niente di verde qualcuno iniziò ad allungare le mani fuori dal recinto, i ragazzini che stavano sulle torrette gli sparavano addosso... E a noi toccava prendere i cadaveri e buttarli nelle latrine o nei canali vicini al campo...». E se gli abitanti di Borovnica, impietositi, cercavano di aiutare gli italiani, questo a volte era più un male che un bene: «Ci sono miei compagni di prigionia che sono stati appesi al palo con il filo spinato perché sono stati trovati con una mela. E dopo ore di tortura sono stati fucilati. Di alcuni ricordo i nomi: Fernando Ricchetti, Giuseppe Spanò... Di altri no, come un civile a cui venne spezzata la schiena...». Questa feroce macelleria con alti e bassi dura, per chi sopravvive e non viene rimpatriato prima, sino al 1946.

«E lo ribadisco: per finire in questi campi bastava essere italiani, ho incontrato lì anche un ragazzo ebreo che si chiamava Davide e che aveva la sfortuna di parlare italiano. Ho incrociato anche partigiani della Garibaldi buttati lì con noi, uno che si chiamava Mario mi diceva: “Ma ti pare giusto che sia qui con te che la guerra l’hai persa?”. Io non sapevo cosa dirgli, a quel punto eravamo tutti solo poveri italiani. Spero si sia salvato». E la cosa più grave, secondo Lionello Rossi Kobau, è che di quei prigionieri non importava nulla a nessuno: «In Italia si sapeva, sia per le testimonianze di alcuni dei primi che tornarono sia per le denunce del vescovo di Trieste... Sarebbe bastato mandare del cibo per maiali e un po’ di pressione diplomatica degli alleati per salvare molti dalla morte per fame... Gli jugoslavi non avevano quasi più nulla e quel poco non lo davano certo a noi... Tutti però erano troppo impegnati a suonare il violino a Tito per staccarlo da Stalin. Devo anche dire che a Borovnica c’era un commissario politico che si chiamava Anton Markovic e veniva da Dobrovo. Contestò molti dei soprusi che subivamo, litigò furiosamente con i comandanti del campo ma venne ignorato sistematicamente. Fu comunque uno dei pochi che cercò di far qualcosa...».

Ma ci sono anche eventi più recenti che fanno soffrire questo reduce da un’esperienza così terribile. «Ritrovare i corpi dei morti nel campo do Borovnica è quasi impossibile. I bersaglieri che invece vennero uccisi e infoibati vicino a Tolmino quelli sarebbe possibile ritrovarli. Ci provo dal 2006 anche grazie all’aiuto di alcuni abitanti. Ma le autorità slovene danno un aiuto formale e molto poco sostanziale. Si limitano a dire: voi diteci dove scavare e noi scaviamo. Quanto al Commissariato generale italiano per le onoranze ai caduti di guerra, i suoi vertici cambiano spesso e questo rende il lavoro discontinuo e sino a ora infruttuoso. E io divento sempre più vecchio e più stanco... Nel 2008 mi sono fatto accompagnare a Tolmino da mio figlio (il noto comico Paolo Rossi, ndr). Abbiamo idee politiche diverse, ma in questa vicenda mi ha sempre aiutato. Quando ha visto il paese mi ha detto: “Qui è pieno di turisti che vanno a pesca, sembra la Svizzera, non credo vogliano ricordare quel passato, non lo vogliono un cippo. Forse nemmeno per i loro...”. Temo avesse ragione, anche se io non voglio arrendermi».

mercoledì 10 febbraio 2010

10 febbraio il giorno della memoria

Tra i figli dell’esodo c’è anche Marchionne
di Fausto Biloslavo


La madre del manager Fiat costretta ad abbandonare il suo paese dopo una serie di tragiche vessazioni. La pulizia etnica era cominciata nel 1943. E la famiglia fu duramente colpita



Zucconi - «Sergio me lo ricordo fin da piccolo, quando mi aiutava a pascolare i manzi. Il nonno non l’ha mai conosciuto, perché è stato infoibato dai partigiani di Tito. Con sua mamma, Maria, sono legata da sempre. L’ho sentita l’ultima volta il 17 gennaio, quando ha compiuto 84 anni, per farle gli auguri. Con la sorella Anna sono andate esuli in Canada, ma non ci hanno mai dimenticato». Parla in dialetto veneto, Maria Zuccon, la zia acquisita di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat. Si sapeva delle sue origini abruzzesi e della vita da adolescente in Canada, ma nelle vene del supermanager scorre anche sangue istriano. Non solo: la famiglia materna di Marchionne ha provato sulla sua pelle la tragedia delle foibe e dell’esodo.



Solo un fratello, Martino, non se ne è andato dopo la guerra sposando Maria, che ci accoglie nel «fogoler» di una tipica casa istriana. «La mamma di Sergio si chiama anche Maria ed è nata proprio in questa casa» spiega la zia del supermanager. Occhi azzurri, capelli color argento e scialle sulle spalle, lei è rimasta a Zucconi, il nome in italiano del villaggio di poche case preso dalla famiglia.. «Un tempo eravamo un centinaio, ma adesso siamo al massimo 40» sospira la signora Maria. Ad una manciata di chilometri da Pola, tutta quest’area con una forte presenza italiana fino al dopoguerra si è svuotata con l’esodo. Prima ancora, a causa dell’armistizio del 1943, le bande partigiane hanno fatto la prova generale della pulizia etnica. E la famiglia materna di Marchionne è finita nel mirino.



«Giacomo, il nonno di Sergio, era un gran lavoratore. A Carnizza, tre chilometri da qui, aveva messo in piedi un negozio sotto casa» racconta zia Maria. «Non ha mai fatto del male a nessuno» ribadisce la signora, classe 1925. Nel Ventennio chi voleva la licenza commerciale doveva automaticamente iscriversi al partito fascista. La zia di Marchionne ripete, però, «che Giacomo non ha mai portato la camicia nera». L’8 settembre 1943 il regio esercito si sbanda. In Istria si crea un pericoloso vuoto di potere. I partigiani di Tito spuntano dai boschi e vanno a prendere i «nemici del popolo».

«Sono andati di notte a casa sua legandogli i polsi con il filo di ferro. Nel paese ne hanno presi sei. Un ingegnere, che aveva fatto solo del bene, ma pure il macellaio - spiega la testimone -. Nella banda c’era un capo comunista ideologizzato, ma in realtà chi aveva debiti con il negozio di Giacomo ne ha approfittato per farlo fuori».



Gli ostaggi spariscono nel nulla. «Anna, la sorella di Maria che adesso è con lei in Canada, non si dava pace. Voleva salvare il papà. Qualcuno li aveva visti portati via in fila indiana», racconta Maria. Il fratello Giuseppe, appena tornato a casa dopo il ribaltone dell’8 settembre, si è pure lanciato nelle ricerche. Purtroppo è finito in un rastrellamento dei tedeschi, che stavano riconquistando l’Istria con il ferro e con il fuoco. Scambiato per un partigiano o un disertore l’hanno passato per le armi.



«Ma Anna non si è data per vinta. Il padre, assieme ad altri, era stato buttato nella foiba di Trlji, a cinque chilometri da questa casa. È andata a Pola e ha convinto i pompieri a recuperare le salme» spiega zia Maria. «Sull’orlo della foiba, quando tiravano fuori i corpi tumefatti Anna diceva non è lui, non è lui... - ricorda la signora Zuccon -. Poi ha avuto un sussulto davanti ad un corpo irriconoscibile. Questo è mio padre. L’ha riconosciuto dai bottoni della giacca che lei stessa aveva cucito».



Il nonno materno di Sergio Marchionne è finito in foiba, ma l’Istria non ha portato solo disgrazie. I suoi genitori si sono conosciuti proprio a Carnizza. Il padre Concezio prestava servizio nella stazione dei carabinieri. La mamma Maria si è subito innamorata del giovane in divisa dell’Abruzzo. Concezio è stato trasferito prima in Slovenia e poi a Gorizia «a “difendere” i confini dall’invasione comunista» scrive Marco Gregoretti nell’Uomo dal maglione nero, un libretto di successo sull’ad Fiat. La futura consorte va dai parenti del marito in Italia scampando alla pulizia etnica dei titini. La sorella Anna vorrebbe raggiungerla. Alla fine della Seconda guerra mondiale la situazione precipita. I titini riprendono la pulizia etnica lasciata a metà nel 1943. Di fronte alle violenze 350mila italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia scappano verso la madre patria. «Un giorno Anna ha preso la sua bicicletta, con solo due borse in mano. È andata a Pola per imbarcarsi sull'ultimo piroscafo per l’Italia» racconta con emozione zia Maria.



I genitori di Sergio si sposano dopo la guerra e vanno a vivere a Chieti dove nel 1952 nasce il futuro supermanager. L’esule Anna Zuccon va per prima in Canada, seguita dalla famiglia Marchionne, che vuole far studiare meglio il figlio. In Istria restano gli zii Martino e Maria. «Sono venuti a trovarmi per la prima volta dopo la guerra quando Sergio aveva 3 anni. Non c’era né luce né acqua corrente. Sergio lo lavavamo nella “mastela” con l’acqua della cisterna assieme ai miei figli» racconta sorridendo Maria. Il giovane Marchionne si diverte durante le vacanze in Istria. «Mi aiutava a portare i manzi. Gli piaceva usare il frustino per indirizzarli e non voleva mollarlo neppure quando andava a dormire. Da più grande mi diceva sempre: zia se continui a lavorare così nei campi andrai a finire al camposanto».

Dalla Fiat fanno sapere che l’amministratore delegato «da bambino sentiva spesso i racconti della mamma e della zia profughe dall’Istria». Nel libro di Gregoretti, un cugino abruzzese ha fatto notare che sul polso del suo inconfondibile maglione Marchionne si è fatto ricamare un piccolo stemma tricolore. Con l’ascesa di Marchionne i legami con i parenti rimasti in Istria si sono rarefatti, ma non cancellati. «Sergio è venuto anche dalla Svizzera con sua moglie ed i due figli per farceli conoscere» racconta Maria. «Adesso lo vedo in televisione. Dicono che sia uno dei manager più importanti al mondo - spiega zia Maria -. Ma per me rimarrà il ragazzino con i lineamenti della mamma. Sergio è una persona semplice e cara che tengo sempre nel mio cuore».


post inviato da Luchy


LA GIORNATA DEL 10 FEBBRAIO

La commemorazione del 10 febbraio ricorda una delle più grandi tragedie italiane di sempre, quella delle Foibe e dell’Esodo dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia, dell’uccisione di 30.000 italiani, della cacciata di altri 350.000, e di altri 50.000 ancora rinchiusi nei gulag jugoslavi. Tutto questo avvenne ad opera degli slavo-comunisti di Tito, con la cooperazione fattiva o l’ignavia dei comunisti italiani del PCI.
La data prescelta è quella del Trattato di pace di Parigi, che nel 1947 sancì la perdita dei territori italiani della Dalmazia, di Fiume, dell’Istria, del Quarnaro
Le foibe hanno rappresentato un’autentica pulizia etnica progettata con lucidità e con grande anticipo dal governo di Belgrado, dal suo dittatore, il “maresciallo” Tito, dal suo ministro degli Esteri, Kardelj, e da un altro ministro ed amico personale di Tito, Vasa Cubrilovic, autori di due veri e propri manuali che contenevano le istruzioni per compiere genocidi ai danni delle popolazioni “etnodiverse” presenti nella stato socialista jugoslavo.
L’invasione delle terre italiane, ed il successivo genocidio, furono favoriti dai comunisti italiani. La brigata partigiana “Osoppo”, costituita da partigiani “bianchi” cattolici e favorevoli alla difesa dei confini nazionali dall’invasione, fu sterminata col tradimento e l’inganno da partigiani comunisti. Togliatti ed il PCI si accordarono con Tito per la cessione di tutte le terre italiane sino al Tagliamento, obbedendo certamente ad ordini di Stalin ed aspirando ad estendere il più possibile i domini del “socialismo reale”. Gli anti-fascisti italiani non comunisti furono emarginati dal PCI, poi uccisi per primi dagli slavo-comunisti. Il PCI orchestrò poi una campagna stampa contro gli esuli, e difese in ogni modo in parlamento ed in campo internazionale gli interessi e le ambizioni territoriali del dittatore Tito.
Gli Italiani vittime delle Foibe furono di ogni idea politica, di ogni classe sociale, di ogni età: fascisti ed anti-fascisti, ricchi e poveri, religiosi ed atei, uomini e donne, vecchi, adulti, bambini. Gli Italiani, dopo aver subito gravissime sevizie (umiliazioni, percosse, stupri, evirazioni; alle donne incinte venivano squarciati i ventri e i feti erano infilzati come trofei su dei pali), venivano legati con del filo spinato gli uni agli altri, e messi in fila. Il capofila veniva poi posto all’imboccatura di una foiba quindi veniva fucilato oppure scaraventato nel vuoto, trascinando con sé gli altri a lui legati. Il rituale era completato frequentemente da un cane nero gettato ancor vivo nella foiba, in osservanza ad una superstizione del folklore balcanico, secondo cui esso avrebbe impedito alle vittime di “ritornare” per vendicarsi.
Un calcolo esatto e completo del numero delle vittime è impossibile, perché moltissimi corpi furono gettati in mare, o seppelliti in foibe rimaste ignote, o rimasti in Jugoslavia nei cimiteri dei gulag. Tuttavia, la cifra più probabile si attesta attorno ai 30.000. Tale somma la si può ottenere dal numero di abitanti italiani presenti nei territori invasi dagli slavo-comunisti e poi scomparsi senza lasciare tracce. Inoltre, la stima del numero di vittime presenti nelle foibe accertate (almeno 67), sommata a quella degli italiani morti nei gulag di Tito, ed ai resoconti di altre uccisioni consente di giungere all’incirca alla stessa cifra, che deve quindi ritenersi quella più verosimile.
Gli esuli furono circa 350.000, e 50.000 gli Italiani che trascorsero molti anni nei campi di concentramento jugoslavi: Borovnica, Skofja Loka, Osseh, e ancora Stara Gradiska, Siska, e poi Goh Otok, l’Isola Calva. Alcuni vi rimasero sino agli anni Sessanta. Fra gli italiani rinchiusi nei gulag di Tito, alcuni erano dei superstiti dei lager tedeschi e, per loro testimonianza, i campi comunisti erano molto peggiori di quelli nazisti. Sui 5.000 Italiani deportati a Goli Otok, 4.000 morirono.
Dopo tutti questi eventi, per 50 anni calò un intenzionale silenzio su ciò che era accaduto. Gli esuli furono emarginati e dimenticati, così come la loro storia. Lo studioso Gianni Oliva nel suo libro “Foibe” ha scritto: «A sessant’anni dagli avvenimenti delle foibe e degli infoibati restano ancora una strage negata esclusa dalla coscienza collettiva della nazione […]. Con legge 92/2004 l’Italia ha riconosciuto ed ha istituito il 10 febbraio come il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriani, giuliani e dalmati. Lo scopo della legge è stato quello di ridare quella dignità e riconoscimento, mancato per lunghi anni, a chi fu tragicamente ucciso, ma anche a tutti i sopravvissuti che furono costretti ad abbandonare le loro case per fuggire dai massacri per mantenere la propria identità di essere italiano.”
Questa memoria continua ad essere purtroppo ancora oggi osteggiata da chi, del tutto assurdamente, nega o giustifica quello che è avvenuto. Pertanto, dinanzi a simili fatti, ed ai ricorrenti e sbagliati tentativi di nasconderli, è un imperativo morale la memoria delle Foibe e dell’Esodo.
IL suo ricordo dovrebbe appartenere al patrimonio collettivo della Nazione italiana, senza distinzione di partito o di idee politiche.
E' un atto di giustizia verso i morti ed i profughi, ma è anche un monito a tutti noi, perché quel che è accaduto in passato può avvenire ancora in futuro.

domenica 7 febbraio 2010

LE FOIBE ED IL PROGRAMMA DI STERMINIO DEGLI ITALIANI

La figura di Vasa Cubrilovic e dei suoi due manuali di puliza etnica dimostra in modo inconfutabile l’erroneità delle tesi di chi, ancora oggi, nega, minimizza o giustifica il genocidio italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, compiuto dai comunisti di Tito.
Infatti, i piani operativi stesi dal Cubrilovic, altissimo personaggio del regime socialista jugoslavo ed amico personale di Tito, provano ulteriormente come la Jugoslavia avesse programmato con largo anticipo un’operazione di “ingegneria etnica” in Venezia Giulia, oltre che in altre regioni allogene su cui aveva delle mire.
Nel 1936, quindi anteriormente alla guerra mondiale ed alla salita al potere di Tito, il Cubrilovic aveva redatto un testo chiamato Iscljavanje Arnauta, cioè Piano di allontanamento degli albanesi, nel quale suggeriva una serie di misure per estirpate gli odiati “Arnauti”, appunto gli Albanesi, dal Kosovo. (sui fortissimi contrasti interni alla Jugoslavia monarchica cfr. ad esempio Jacob Hoptner, “Yugoslavia in Crisis, 1934-1941”, New York 1962, nel quale si documenta la realtà di un sistema statale essenzialemente serbocentrico dilaniato dagli opposti nazionalismi delle varie etnie facente parte della Jugoslavia. Sull’argomento dei nazionalismi jugoslavi è notevole, fra gli altri, lo studio di K. Boeckh, “Von den Balkankrieg zum Ersten Weltkrieg. Kleinstaatenpolitik und ethnische Selbsbestimmung auf dem Balkan”, München 1996). E’ degno di nota come, di fatto, il manuale Cubrilovic, opportunamente modificato a seconda delle esigenze del tempo, abbia poi trovato effettiva applicazione in terra kosovara ad opera di Milosevic nell’ultimo conflitto balcanico.
Il Cubrilovic indicava una serie di misure precise per scacciare gli “etnodiversi”:
1) leggi discriminatorie a loro danno, tali da indurli ad andarsene
2) Misure strettamente economiche: tassazioni, espropri, prestazioni lavorative forzose, ritiro delle licenze commerciali, licenziamenti di massa dei membri delle etnia “ostile”
3) Misure di ordine religioso: arresto o cacciata del clero, distruzione di edifici di culto e cimiteri, impedimenti frapposti al libero esercizio del culto ecc.
4) la costituzione di reparti para-militari di civili armati, tratti dall’etnia dominante ed inviati nella regione al fine di terrorizzare e vessare gli abitanti locali
5) il compimento di stragi, arresti e deportazioni di massa, al fine di creare una “psicosi dell’evacuazione” (questa è l’espressione adoperata dal Cubrilovic) ed indurre gli “etnodiversi” ad andarsene.
6) l’intera operazione doveva essere ben pianificata ed organizzata dall’alto, da parte del governo e dello stato maggiore, e con l’ausilio non solo dell’esercito e della polizia, ma persino di altri organismi, come, ad esempio, i sindacati.

Cubrilovic poi nel 1944 scrisse un suo secondo memorandum, che s’intitola “Il problema delle minoranze nella nuova Jugoslavia” [Manjinski problem u novoj Jugoslaviji]. Esso riprendeva la sostanza del piano del primo, mentre la differenza principale è che non era più rivolto verso gli Albanesi, bensì in direzione di tutte le minoranze non jugo-slave che sarebbero state incluse nei territori della nuova repubblica socialista.
Cubrilovic si espresse con la massima chiarezza riguardo agli Italiani della Dalmazia, dell’Istria, di Trieste e Gorizia, che andavano tutti cacciati, per conquistare anche etnicamente e non solo politicamente tali territori. Egli formulò proprio l’espressione di “conquista etnica”, mediante cacciata degli Italiani seguita da colonizzazione slava. Questo comunista serbo giunse a scrivere che la Jugoslavia era autorizzata dal “diritto del vincitore” ad obbligare l’Italia a riprendersi i suoi connazionali di Istria e Dalmazia.
Il Cubrilovic, passato dal nazionalismo serbo al comunismo titino, divenne ministro di Tito e suo amico personale, ed in tal modo potè essere dei maggiori artefici delle numerose operazioni di “pulizia etnica” compiuta dalla Jugoslavia comunista. Esse colpirono non solo la Venezia Giulia e la Dalmazia, cioè gli Italiani, ma anche la Carinzia (Tedeschi), il “triangolo ungherese” (Magiari), e la Dobruja (Bulgari).
Il ruolo di questo individuo in tali operazioni di pulizia etnica risulta provato da una serie di fattori decisivi.
-il ruolo di ministro;
-l’amicizia personale con Tito:
-la corrispondenza fra le istruzioni dei suoi manuali e la realtà concreta della pulizia etnica,
-infine, argomento davvero risolutivo, una documentazione d’archivio dello stato jugoslavo, oggi reperita, che riporta le sue direttive in merito alla cacciata di massa delle etnie non jugo-slave dai territori occupati dalla Jugoslavia.
L’esistenza del piano orchestrato da Cubrilovic, ben prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, e destinato in origine ad essere applicato contro gli Albanesi, è un’ulteriore prova di come gli eventi del 1943-1945 in Venezia Giulia possano essere compresi unicamente quale una pulizia etnica orchestrata dall’alto, da Tito stesso, sulla base di un piano ben preciso.
Questa dittatura era assieme socialista e nazionalista, ed operò la sua repressione totalitaria in una duplice direzione: verso gli oppositori politici da una parte, verso le etnie “estranee” dall’altra. Si ebbe così una vera ecatombe di nemici ideologici, ed assieme la cacciata in massa di tutti coloro che non erano ritenuti jugo-slavi.