lunedì 20 settembre 2010

Notizie storiche sul Medeghino

Aggiornamento del 6 aprile 2014 Qui l'edizione integrale del libro di Giuseppe Arrigoni
http://books.google.it/books?id=Lf5SAAAAcAAJ&pg=PA81&lpg=PA81&dq=entierro+a+primaluna&source=bl&ots=vwF2JCeggH&sig=9t8uBcagvrMF7FP19X_71P0DtSM&hl=it&sa=X&ei=T8Y3U9ShGcuBywO26oCICQ&ved=0CEsQ6AEwBA#v=onepage&q=entierro%20a%20primaluna&f=false


Giuseppe Arrigoni – Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe – FORNI EDITORE BOLOGNA 1840.
Libro Terzo - Cap. VII
La Valsassina corsa e depredata dai Grigioni – Viene occupata da G.G.Medici e poi concessagli in feudo – Il Medici prende Chiavenna e porzione della Valtellina – Perde queste regioni – E’ sconfitto a Delebio – Marco Grasso per la Valsassina entra nella valle del Bitto, ma vi è respinto – Il Medici entra nella Brianza ed occupa Monguzzo – E’ battuto dal Leyva – Prende Lecco, ma è subito costretto ad abbandonarlo – Lo ottiene in feudo dall’Imperatore – Battista Medici per la Valsassina penetra nella Valtaleggio e l’occupa fino a Zogno – Ritorna a Musso per la stessa via.

I fatti che io vo in questo e nel successivo capitolo a narrare sono di un’importanza comparabilmente maggiore degli altri esposti nel presente libro. Imperciocchè racchiudono essi un nuovo periodo di indipendenza dei Valsassinesi e le ultime prove del valore e della gloria loro. Un venturi ero, colta l’opportunità dei tempi, si fece signore del lago e della Valsassina, e qualche tempo si mantenne nel suo piccolo stato infliggendo guerra ai Grigioni, al duca di Milano ed all’Imperatore. Fu questi Gio.Giacomo Medici denominato il Medeghino, il quale, ottenuto con un omicidio e con un inganno il castello di Musso, fortificassi in esso prendendo a soldo tutti quelli che volevano arruolarsi sotto la sua bandiera (1523).
In quel tempo Francesco I re di Francia preparavasi al riacquisto del milanese. In soccorso di lui già eran discesi dalle Alpi 5000 Grigioni sotto la condotta di Renzo da Ceri, il quale doveva passare a Lodi e congiungersi ai fanti italiani capitanati da Federico da Bozzolo. Il Ceri, attraversando la Valsassina, si era portato a Capriano. Contro di lui il duca mandava Gio. De Medici con alcune bande, le quali fino agli alloggiamenti dei Grigioni si spinsero. Ma questi, dopo esser stati tre giorni oziosi, querelandosi di non trovare le promesse paghe, per la strada d’onde eran venuti se ne tornarono a casa (Guicciardini: Istoria d’Italia, lib. XV, cap.III – Calvi: Campidoglio cc., pag 290).
Calavan poco dopo dalla Spluga altri cinquemila fanti Grigioni sotto la condotta di Dietegano Salice per imbarcarsi sul Lario e recarsi nel milanese in aiuto del re. Il Medici che ne aveva avuto avviso, per far cosa gradita al duca e ottener l’investitura di Musso e delle Tre-Pievi, percorse amendue le rive del lago fino a Rezzonico e Bellano, sequestrando tutte le barche, onde Dietegano non potesse servirsene. Giunto di fatto a Colico dovette defilar le truppe per dirupati sentieri verso la Valsassina, e sei giorni dovette impiegare a giungere a Bellano, essendogli dal Medici continuamente contrastato il passo col fuoco dei cannoni posti sopra barche e con spessi postamenti nei luoghi più difficili e difende voli. Entrati i Reti nella Valsassina ogni cosa quasi a vendetta malmenarono. Sboccarono quindi a Lecco e si portarono in Gera d’Adda. Ma poiché le Tre Leghe Grigie videro dal Medici minacciata Chiavenna, richiamarono il Salice il quale con ogni prestezza ripassò la Valsassina, e, recatosi a Colico, tentò il passaggio dell’Adda e recossi nelle Tre Pievi a combattere il Medici, ove venne da questi respinto.
Conoscendo allora il castellano di Musso l’importanza del passo della Valsassina, e di quanto aiuto potesse essergli l’acquisto di questa valle per l’opulenza sua e pel genio degli abitanti all’armi avvezzi, tenne segrete pratiche coi primati ed entratovi ostilmente la occupò. Ottenne poi dal duca un’onorata provvigione col titolo di governatore di Musso, di amendue le rive del lago e della Valsassina.

Accresciuto così di potere e di forze volle il Medici tentar l’acquisto dell’importante borgata di Chiavenna. Mandò a quell’impresa certo Riccio, il quale, tolti seco soli diciannove fra i più prodi ed
arrischiati militi, appiattossi di notte sotto i baluardi del castello aspettando che il governatore Wolfio Silvestri escisse, com’era uso. Come appena fu fuori lo prese e l’obbligò a far calare il ponte del forte, nel quale entrato, e disarmata la guernigione, attese che gli venisser soccorsi dal Medici.
Appena del fatto avvertiti furono i Grigioni raccolsero dalle vicine valli mille e cento uomini e si riunirono in Chiavenna. Non tardò a sopraggiungere il Medeghino con seicento soldati del suo dominio e alcuni spagnuoli e con un cannone, e dato di fitta notte l’assalto, entrò a viva forza nel borgo, fugando i Grigioni ed inseguendoli per le valli e pei monti (1524).
Vedendo il Medici in auge la sua fortuna meditò l’acquisto della Valtellina, per la quale impresa ottenne che il conte d’Arco governatore di Como con trecento fanti il soccorresse. Lasciato Francesco Del Matto con buon presidio alla guardia di Chiavenna, col resto degli uomini penetrò nella Valtellina occupando Delebio e Morbegno. Ma udendo poi che minacciata era Chiavenna, solo, e sotto mentite spoglie, vi si portò, lasciando al conte d’Arco la cura del proseguimento dell’impresa.
I Grigioni andavan pure preparandosi alla presente guerra, e già d’armi e d’armati avevano empito tutta la Valtellina, e richiamati eziandio seimila fanti che militavano al soldo dei Francesi sotto le mura di Pavia. Per lo che il conte stimò opportuno di porsi in più difendevole situazione ed in modo d’impedir la comunicazione dei nemici con Chiavenna, accampandosi a Dubino oltre l’Adda, ove sconfisse una schiera di Grigioni che, venuta da Pavia, si avviava a Chiavenna.
Ma i Grigioni, cui stava a cuore il ricupero di questo borgo, con tutte le forze piombarono addosso al conte d’Arco e l’obbligarono a snidare di là. Presero quindi Chiavenna; ma la rocca, nella quale era il Riccio, strenuamente si difese per qualche tempo sostenendo venti assalti. Finalmente per mancanza di viveri si rese a condizioni.
Il Medici, intanto che qualche tempo prima erasi recato nelle Tre Pievi per farvi raccolta di gente e di denaro, trovandosi incapace a portar soccorsi a Chiavenna, fece una scorreria nella Valtellina, sbarcando a Colico con novecento armati, e dirigendosi verso Traona, ov’era acquartierato un corpo di Reti. Giunto però a Delebio e d’improvviso assalito dai nemici fu messo in fuga.
Nel tempo stesso, con cinquecento archibugieri Valsassinesi e Lariani, Marco Grasso dalla Valsassina discendeva in Valtellina per la valle del Bitto per attaccare simultaneamente da quella parte i Grigioni. Egli pure, come fu arrivato a Sacco, luogo poco da Morbegno discosto, venne all’impensata assalito e messo in iscompiglio. Riordinatosi però tostamente ed occupata un’altura, si diede a far fuoco disperatamente sui nemici. Ma per la sovrabbondanza del numero dei soldati Grigioni, vedendo di non poter lungamente sostenersi, girò per le creste di quei monti per portarsi in Valmadre, che è dirimpetto a Berbenno, ed entrar da quella parte in Valtellina. Dovendo però passare pel territorio veneto, i rappresentanti della repubblica non vi dieder l’assenso, onde dovette retrocedere (1525). Durante queste vicende era stato fatto prigione il re di Francia e stabilito nel ducato lo Sforza. Se non che la crudele ed ambiziosa politica dell’imperator Carlo V, che pareva mirasse al dominio dell’Italia tutta, suggerì ai principi della penisola di formare una lega per cacciarnelo ed assicurare il trono allo Sforza, che quasi prigione si teneva dal marchese di Pescara, general supremo delle armi cesaree in Lombardia. Del che accortosi il Pescara imprigionò Girolamo Morone ministro del duca e macchinatore di questa lega, ed occupò in nome di Carlo V tutte le città del ducato. Tentò altresì, ma inutilmente, di indurre il Medici al rilascio delle Tre Pievi e della Valsassina. Laonde questi, che temeva di una guerra cogli Spagnuoli, stipulò coi Grigioni una tregua, durante la quale rivolse l’animo ad ingrandire il dominio, e senza ostacolo sottomise tutte le terre del lago e la valle di Menaggio fino a Porlezza.
Favorendo quindi le mosse dell’esercito dei confederati, che erasi accostato a Milano, colle milizie del lago e della Valsassina, e con alcuni Svizzeri da lui assoldati con denari della lega, entrò nella Brianza. Ma essendo riescito a nulla tutto quell’apparecchio di guerra, il Medici, per non tornarsene a casa colle mani vuote, di notte diede la scalata al castello di Monguzzo, che guardato era da Alessandro Bentivoglio, e lo prese.
Per ordine di Antonio de Leyva, succeduto al Pescara nel comando delle truppe cesaree, il quale di mal animo vedeva l’ingrandimento di questo partigiano dello Sforza, il conte Lodovico Belgiojoso portossi a Monguzzo per togliere il castello dalle mani del Medeghino, ma vi fu respinto colla perdita di più di cento soldati e quattro cannoni.

Resosi il Medici padrone di Monguzzo, facilmente veniva in suo potere quasi tutta la Brianza. E perché necessitava di pecunia, quanti ricchi e facoltosi v’erano nei dintorni imprigionò per trarne riscatto col qual mezzo potè assoldare alcune compagnie di Grigioni, e annoverare così quattromila fanti e cinquecento cavalli. Con queste forze mosse a Carate. Ma il Leyva, cui, com’egli stesso diceva, tornavan più dannose le tumultuarie bande del Medici, che non le truppe ducali, avuto avviso di questa marcia, alla sera abbandonò Milano, e all’alba seguente con buone truppe si trovò a Carate. Feroce ed ostinata zuffa si accese fra i due eserciti, ma l’esito fu sfavorevole ai nostri per la caparbietà dei Grigioni, che sospettando del Medici, abbandonarono il posto loro assegnato (1528).
Era allora governatore di Lecco un Villaterello, spagnuolo, nemico intensissimo al Medeghino. Costui, non avendo mai potuto né per astuzia militare, né per forza tener a freno il Medici, pensò di levargli Musso con frode. Chiamato a sé un Gasparino Sardi, suo prigione, già intrinseco del Medici, e che ora se ne mostrava malcontento, gli promise la libertà se toglieva Musso al castellano. Accettata la proposta e data garanzia, il Sardi volò a Musso, e col Medici indettossi come potevano ingannare il Villaterello. Tornò quindi a Lecco e tolse seco per la finta impresa alcuni spagnuoli ed un fratello del governatore. Sotto colore di sorprendere Musso ve li condusse. Ma appena posero piede sulla soglia che tutti vennero trafitti, ad eccezione di due, i quali reputandosi meravigliosamente salvati, si votarono frati. Un brigantino, postato a poca distanza, essendo così concertato col Villaterello, sentito che ebbe lo sparo del cannone, indizio della riuscita impresa, partì a portarne l’avviso a Lecco. Il governatore a questa nuova, col resto delle sue genti, s’imbarcò tosto per prestar soccorso se uopo fosse; ma giunto a Mandello seppe l’infausto caso, e scornato ritornossene a Lecco, ove poi, dolente per la morte del fratello, ottenutene il corpo, rinunziò il governo della fortezza, né più volle rivedere questi paesi.
La nuova arrivata al Villaterello prima del tempo calcolato dal Medici, tolse a questo di compiere il suo disegno; poiché aveva disposto che appena quello avesse passato Varenna venisse chiuso con catene e legnami il ramo del lago per poterlo così costringere ad una battaglia, la quale facilmente l’avrebbe messo in potere di Lecco. Volendo però ad ogni costo impadronirsi di quel importante e ricca borgata, ivi, si portò non guari dopo con trecento fanti e quattro cannoni, occupando in sulle prime il ponte ed il borgo. Lucio Brisighello, che era subentrato al governo con alcune bande di Calabresi, rinchiusosi nella rocca, si dispose a sostenerne l’assedio, sperando nei soccorsi del Leyva; ma difettando poi d’annona, per consiglio del podestà fece escire da sessanta fra i primi del borgo, i quali, presi dal Medici, gli fruttarono grossa somma se vollero esimersi.
Non furono però tardi i soccorsi del Leyva, inviandogli numerose schiere veterane comandate da Filippo Tornielli, da Lodovico Belgiojoso, da Cesare Maggi e dall’Ibarra spagnuolo. Questi, superate avendo alcune truppe veneziane guidate dai capitani Cosco e Farfarello che venute erano al soccorso del Medici fino al luogo detto il Pertugio, mossero verso Lecco ed obbligarono i nostri a ritirarsi (19 marzo1528).
Ciò che colle armi non potè avere, ottenne il Medici collo sborso di una certa somma di denaro, confermandogli il Leyva a nome dell’imperatore i possessi che aveva, e dandogli il titolo di marchese di Musso e conte di Lecco, impetrata prima per quest’ultimo la cessione delle ragioni di Girolamo Morone che ne era stato infeudato nel 1513 e nel 1515.
Fatto così Gio. Giacomo Medici seguace del partito cesareo e vassallo dell’impero, ebbe dal Leyva ordine che a danno dei Veneziani entrasse nelle valli bergamasche finitime alla Valsassina, mentre l’esercito imperiale d’altra banda contro essi marciava. Intanto che il Medici per tale impresa radunava genti, mandò avanti con alcune compagnie scelte suo fratello Battista, il quale, attraversata la Valsassina, entrò in Valtaleggio occupandone tutte le terre fino a Zogno. Lasciato ivi il capitano Pellicione con cento soldati vecchi e alcune cerne per ridurre all’obbedienza i luoghi circonvicini, egli, col resto delle truppe e col capitano Porino, s’inoltrò nella valle Brembana. Il Leyva intanto, accomodate le cose colla veneta repubblica, era retrocesso senza darne avviso al
Medici. Cessati perciò i pericoli di guerra, i montanari di Taleggio e dei dintorni, tumultuariamente radunati in grosso numero, corsero sopra Zogno. Il Pellicione, che aveva con legnami fortificata la terra, non solamente arrestò l’impeto di quelle bande disordinate, ma le respinse, inseguì e disperse.
Era intenzione di Gio. Giacomo Medici, che andava ingrossando di gente, di accordar quelle valli e correre defilato a sorprendere il castello di Bergamo, quando avuto notizia del seguito accordo, mandò ordine ai suoi che si ritirassero. Riunitisi quindi Battista suo fratello, il Porino e il Pellicione per la stessa strada della Valsassina ritornarono a casa.

CAPITOLO VIII pag.232
Lo Sforza ritorna al possesso del ducato e fa tregua col Medici – Imprese di questi nella Valtellina – Disfatta dei Grigioni – Il duca entra in lega con essi – L’esercito grigione prende Morbegno – Entra in Valsassina per la valle di Troggia ed assalta la torre d’Introbbio – Bella difesa degli Introbbiesi - , per la quale i Reti abbandonano la Valsassina – Assediano Musso, ma ne sono respinti – I ducali assediano Lecco – Il Medici è sconfitto a Mandello – Suo stratagemma, col quale vince i ducali a Castello – Sua vittoria a Malgrate – Pace fra lo Sforza ed il Medici, per la quale questo cede al duca tutti i suoi dominj.

Sceso nel seguente anno 1529 l’imperatore Carlo V in Italia a cingersi il capo dell’imperial corona, venne ad accordi col pontefice Clemente VII, fra quali era pattuita la restituzione di tutto l’antico ducato di Milano a Francesco Sforza. Vedendosi allora il Medici privato dei suoi dominj, come appartenenti al duca, e vane essendo riescite le pratiche per ottenere da Carlo V la conferma di quella investitura, che già dal Leyva in suo nome gli era stata accordata, si dispose a sostenere colla forza la sua signoria. Prima però di tentare la sorte delle armi, poiché già le truppe ducali si avanzavano, spedì Leone Arrigoni d’Introbbio, suo agente o ambasciatore, al duca di Savoja ed al vescovo di Vercelli, perché interponessero i loro ufficj e ottenessero dal duca la bramata investitura. Lo Sforza, alieno dalla guerra, accettò il partito, e in pochi giorni si concertarono i patti, coi quali il duca concedeva a Gio. Giacomo Medici Lecco, le Tre-Pievi, la Valsassina e le adjacenze, ed obbligavasi di fornirgli ogni anno certa quantità di grano e di sale, e di riputare i soldati medicensi come quelli del duca. Dall’altro canto il Medici cedeva a questo Monguzzo e le terre attigue, e prometteva pagargli quarantamila scudi. Ma i capitani del Medeghino lo dissuadevano dall’accettar la condizione del pagamento del denaro. Onde, per trattar più comodamente l’affare, Battista Medici e il vescovo di Vercelli ottennero dal duca una tregua di sei mesi (1529).
Il marchese intanto, come quelli cui stava sommamente a cuore l’impresa della Valtellina, assoldava Giorgio Capucciano, duce di una schiera di Albanesi, e Cesare Maggi da Napoli, capitano di un drappello di Calabresi, ed iva arruolando genti dalle sponde lariane, da Lecco e dalla Valsassina. Venuta la primavera del 1531 mosse l’armata, ed a viva forza occupò Delebio difeso dagli alabardieri Grigioni e dai terrazzani. Procedendo quindi alacremente, ottenne Morbegno, che chiuse con bastite e palizzate.
Contro di lui veniva rattamente Giovanni di Marmora, governatore della valle, con quattromila soldati. Non lungi da Berbenno scontrossi con uno squadrone di cavalleria del Medici, il quale, benché animosamente pugnasse, soperchiato dal numero, dovette indietreggiare.
Il vincitore corse allora con gran furia sopra Morbegno, credendo di prenderlo, e ne diede l’assalto. Ma il Medici, prese due compagnie di cavalli che erano accampate fuori del borgo, piombò inopinatamente sul fianco dei nemici, e tanto li tribolò che si diedero alla fuga volgendo verso l’Adda. Il marchese, rapidamente inseguendoli, li sorpassò prima che all’Adda arrivassero, e, postati due cannoni sul ponte impedì loro il passo. Così, serrati i Grigioni fra il fiume ed i nostri, che eran esciti da Morbegno sotto il governo di Gabrio, altro fratello del marchese, interclusa ogni via di scampo, furono uccisi o nell’Adda affogati. Più di cinquecento uomini perdettero i Grigioni in questa disfatta, fra cui Dietegano Salice, Martino Traverso e lo stesso governatore Giovanni di Marmora.
Per questa sorprendente vittoria assai rallegrandosi il marchese volle darne notizia a tutte le potenze, cui credeva potesse tornare gradita, e specialmente al sommo pontefice per mezzo del suo fratello Agosto residente in Roma, all’imperatore per mezzo del protonotario Caracciolo, ed al senato veneziano per mezzo di Leone Arrigoni d’Introbbio, suo ambasciatore presso quella repubblica. Ma il duca, che mal volentieri vedeva quella vittoria, ancorchè spirato non fosse il termine della tregua, trasse le truppe contro il Medici, strinse alleanza coi Grigioni ed operò che l’imperatore richiamasse gli spagnuoli che militavano al soldo del Medici ed impedisse il passaggio pel Tirolo di quattromila Svizzeri per lui accordati dal conte d’Altemps suo cognato. Per lo che il marchese, assai dolendosi del tradimento dello Sforza, ne rese contezza ai principi e volendo perpetuarne la memoria fece nella sua zecca di Musso coniare una moneta col motto rupta fides.

Già i Grigioni eran calati nella Valtellina in numero di quattordicimila fra cavalli e fanti con molti pezzi di artiglieria. Porzione di questa numerosa falange marciò contro Morbegno e ne dispose l’assedio. Gabrio, che ne era alla custodia, stette alcuni dì, ma vedendo che i nemici si facevano sempre più forti e numerosi deliberò di evadere. Chiusi i terrazzani nelle cantine, perché non potessero dar segno alcuno ai nemici, di nottetempo tanto chetamente col presidio escì dal borgo, che fino al giorno i Grigioni non se ne avvidero. Corsero allora sulle tracce dei fuggitivi, ma giunti a Colico videro che già eran nelle acque veleggiando verso Musso. Una nave però, in cui eran quaranta Spagnuoli capitanati da Marco Grasso, mentre dirigevasi alla torre di Olonio per rinforzar quel presidio, ammelmò in quelle paludi talmente che diede campo ai Grigioni di andar loro sopra ed obbligarli alla resa. Il Grasso, condotto a Sondrio, fu alle forche appeso.
E poiché prospera vedevan la fortuna si accinsero i Grigioni ad altra impresa. Sapendo di quanto utile di uomini e di pecunia fosse al Medici la Valsassina popolata di molte grosse terre ed affezzionatissima al marchese, deliberarono d’invaderla. Intanto, così essendosi concertato, il duca spediva Gio. Battista Speziano, Lodovico Vistarino e Alessandro Gonzaga, marchese di Mantova, all’oppugnazione di Monguzzo e di Lecco. Da Morbegno spingendosi adunque i Grigioni nella valle del Bitto in numero di seimila combattenti capitanati da Giorgio Vestari con alcuni pezzi di artiglieria, calarono per quella della Troggia ad Introbbio.

Siede Introbbio quasi nel centro della Valsassina, là dove, chi assomigliar la volesse ad un braccio ricurvo, ne apparirebbe il gomito. Mediocremente spaziata gli si apre dinanzi una pianura a campi ed a prati, ed a tergo s’innalza un monte, già del ducato milanese colla veneta repubblica e coi Grigioni, or colla bergamasca provincia e sondriese, confine. Il torrente Acquaduro gli lambe il fianco a scirocco, e più discosto a maestro lo bagna la Troggia, tributarj amendue del maggior fiume, la Pioverna, che a libeccio discorre. Nel bel mezzo del borgo, rinforzata da propugnacoli e baluardi, sorgeva una quadrata e capace torre, che durata alle ingiurie dei secoli, tuttavia si ammira. Luogo d’importanza militare e commerciale era Introbbio a quei dì; conciossiaché, oltre all’esser strada a chi si portasse nei sopraddetti stati ed attiguo al difendevol posto del Ponte di Chiuso, vi risiedevan i magistrati di giustizia della valle, il collegio dei notaj e varie nobili e ricche famiglie, ed il commercio e l’industria vi fiorivano. Travagliato nondimeno negli antichi tempi da spessi depredamenti di eserciti e da incendj, e dalle moderne ingiurie straziato e casso, non potè per avventura aggiungere a quella prosperità, cui fin d’allora destinato pareva.
Era la torre guardata dai terrazzani, i quali al primo avviso che il retico esercito era presso, eransi colà dentro ritirati con quanta copia di camangiare e di munizioni poterono, disposti a farne fino all’ultimo sangue la difesa. Come i Grigioni entrati furono nella terra fecero la chiamata della torre. Risposero gl’intrepidi Introbbiesi non voler essi deporre le armi prima che non fossero conquistati Monguzzo, Lecco e Musso. Accampossi allora l’esercito intorno al paese e diede l’assalto alla torre, bersagliandola molto fieramente coi cannoni e colle moschetterie, sperando che non dovesse loro resistere per l’infinita loro prevalenza di numero; ma furono essi con molto loro danni ributtati. Il seguente giorno rinnovaron l’assalto e di nuovo ne furono respinti. Stettero così accampati molti giorni sempre tentandone la scalata; ma poiché videro, che per l’ardire e la pertinacia dei difensori non era lor dato di poterla prendere e che l’esercito veniva sempre decimando sì per le palle che sugli assalitori piovevano incessantemente dalle caditoje e balestriere del forte, e per le immani schegge di rupi che dalle eminenze rotolavan addosso a quelli che guardavano il blocco, abbandonarono quella impresa e si rivolsero verso Bellano, mettendo a saccomanno Vimogno, Primaluna, Cortabbio, Cortenuova e tutte le altre terre che pel cammino incontrarono.

Si drizzarono quindi verso le Tre-Pievi, da dove sloggiarono il Medici, benché strenuamente si difendesse, obbligandolo a rinchiudersi nel castello di Musso. Assediato dai Reti e dalle artiglierie continuamente battuto, era il castello a dure condizioni venuto. Ma il Medici seppe così bene di notte assalir da più bande i nemici, che fugati e spersi se ne tornarono in Valtellina (15 novembre 1531).
Intanto Alessandro Gonzaga colle truppe ducali aveva preso Monguzzo e si era portato all’espugnazione di Lecco. Dispose egli una lunga trinciera fra il borgo ed il ponte per segregare l’un presidio dall’altro. Mandò poi il capitano Corsino da Sant’Angelo con due compagnie e alcuni cannoni a Malgrate, perché impedisse ogni soccorso dalla parte del lago. Egli infine si pose a Castello che sovrasta al borgo e cominciò a batterlo con tre cannoni. Nel tempo istesso Lodovico Vistarino colla classe navale bersagliava talmente il ponte che le guardie dovettero ritirarsi nella parte posteriore di esso detta il Rivellino. Gabrio, che era al governo del borgo, mandò in soccorso del ponte Pedraccio da Erba con dieci soldati. Questo, passata a tutta foga la trincea nemica, entrò nel Rivellino; ma, vista avendo l’impossibilità di difendersi, con quei pochi sani che v’erano ritornò in Lecco. Gli altri si arresero al Vistarino, il quale munì il ponte e venne a Mandello per impedir alle navi medicensi la navigazione a Lecco.
Il marchese, dopo aver perseguitato i Grigioni, velocemente volò al soccorso di Lecco sbarcando nel tragitto diversi corpi a Dervio, Bellano, Varenna e Mandello, nei quali paesi trovavansi alcune guardie nemiche che sbaragliò.
Accresciuta poi la flottiglia da alcune navi lecchesi capitanate da Giovanni Agliati, mosse contro il Vistarino. Infelicemente però riescigli questa fazione, nella quale restò morto Gabrio, suo fratello, valorosissimo giovine, che portato a Lecco, ed ottenuta una tregua per fargli i funebri onori, fu sepolto nella chiesa di S. Giacomo di Castello.
Per tale sinistro accidente temendo il marchese di continuare la guerra, per la quale difettava di pecunia, tentò di far lega col re di Francia e ottener da lui qualche sovvenimento. Vane però essendogli riescite le pratiche, fece battere gran copia di monete di una lega di stagno e argento, a cui diede un esagerato valor nominale e le fece circolare colla promessa di redimerle alla fine della guerra. Tanto era il Medici dalle sue genti amato, che non solo accettarono quel metallo, ma vollero ritenerlo per sua memoria anche quando egli, mantenendo la promessa, volle riscattarlo.
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Ristaurato così d’animo e di forze rimise nelle acque il naviglio, e passando Mandello senza che il Vistarino se ne accorgesse, calò a Lecco, ove assaltò trecento Calabresi guidati da Cesare Maggi.
Avendo quindi udito che il Gonzaga se ne stava assai negligentemente in Castello, pensò di assaltarlo all’impensata. Scelti a tal uopo novantadue uomini, mise loro sopra l’armi una camicia con una banda bianca e fascetti rossi e con altra banda rossa a differenza delle ducali che le portavan tutte rosse, e sopra la camicia una cappa nera. Avuta voce dal Caravacca, famoso nell’ufficio di spia, del luogo preciso e del motto della sentinella, lasciò Lecco in guardia al Pellicione ed a Gabrio Serbelloni, scese nella fossa per uscir dalla parte del lago, e camminando con silenzio sotto le trincere giunse rimpetto al ponte. Ivi a caso cadde a terra un tedesco di grave armatura, al cui rumore la sentinella gridò; ma quei che guardavan il ponte non sentendo altro fracasso, poiché i medicensi bocconi a terra si eran gittati, se ne tornarono al riposo. Arrivato così a Castello impose ai suoi che cavassero la cappa nera, ad eccezione di due, coi quali avviossi verso la prima sentinella. Le diede la parola e, accostatosi, vibrolle una pugnalata nella gola. Appressossi poi di slancio al corpo di guardia e gettò una pugnata di bragia in viso al caporale che sonnacchioso se ne stava al fuoco. Alzato quindi un grido, entrarono gl’incamisciati, coi quali corse alla tenda del Gonzaga, che se ne stava a letto coll’amanza, e fecelo prigione. Le munizioni, le artiglierie, le bagaglie rimasero in potere dei nostri (1532).
Approfittando allora della propizia fortuna, mandò Cesare Maggi coi capitani Gio. Francesco d’Ischia, Cosco, Bigotto e Paolo d’Anversa ad assalir Malgrate difeso da buone milizie testè
accresciute di nuovi soldati guidati dal capitano Accursio da Lodi e di una porzione di quelli del Vistarino. Assaltati sul far dell’alba del 14 febbrajo, e per la parte del lago, e per quella di terra, brandiron i ducali le armi come meglio seppero, e con molta bravura sostennero il primo impeto dei medicensi. Ma come entrarono questi nella terra ed assaliti si videro da ogni parte, cominciarono a cagliare e andar in iscompiglio. Il prode Accursio con un drappello di valorosi ridotto in una casa disperatamente si difendeva, ma cinta la casa e bombardata, ricusando egli di depor l’armi sebben ferito, spirò schiacciato fra lo sfasciume delle rovinanti mura.
Non eransi frattanto intromesse dai fratelli del Medici, Battista e Gio. Angelo, che fu poi pontefice, le pratiche d’accordo, il quale venne finalmente stipulato e ratificato da ambe le parti colle condizioni seguenti: che il Medici rinunziasse Musso, Lecco, la Valsassina e le altre terre, e restituisse le artiglierie tolte ai Veneziani; che il duca fosse tenuto pagargli diecimila scudi d’oro al momento ed altri venticinquemila entro otto mesi, e dargli il marchesato di Melegnano coll’entrata di scudi mille, che liberi fossero ed il Medici ed i suoi fratelli, fautori e soldati da qualunque reato, e che ferme fossero tutte le sentenze da lui e dal suo consiglio emanate.